PUNTI CONTROVERSI

di Roberto Bracco 

Indice: 

  1.  Introduzione 
  2. Faccia parte d’ogni suo bene
  3. Il carname e le aquile
  4. Verecondia e modestia
  5. Se hanno fatto queste cose al legno verde
  6. Pasti di carità
  7. Sarà salvata partorendo figli
  8. Culto cristiano
  9. La moglie di Caino
  10. Onora tuo padre e tua madre
  11. In man di Satana

 Introduzione

 Questo volumetto è dedicato a tutti coloro che fanno della Bibbia l’alimento e la gioia della loro anima. E’ uno scritto senza pretese che si rivolge esclusivamente a quella categoria di credenti che anelano trovare quotidianamente nuova luce e che perciò sono disposti a rinnovare, mediante la lettura, quel dialogo spirituale capace di sviluppare, più che la conoscenza, quello spirito investigativo che è necessario per penetrare nel significato delle scritture.

Il volumetto non ha un soggetto che lo esaurisca e perciò appare piuttosto come un saggio di letteratura cristiana che potrebbe, nel futuro, essere seguito da scritti analoghi: verità dimenticate e punti controversi esistono in così notevole numero da fornire argomento per opere di mole maggiore e di valore più elevato.

La brevità dello scritto e la semplicità degli argomenti potrà giovare alla particolare sfera di lettori ai quali s’indirizza; esso infatti non vuole essere un testo teologico e neanche un trattato di esegetica, ma semplicemente una raccolta di meditazioni cristiane nelle quali, anche i credenti sforniti di qualsiasi preparazione culturale, potranno cogliere il pensiero dell’autore.

Dalle colonne del periodico “Risveglio Pentecostale” sono stati già affrontati alcuni dei soggetti del presente volumetto, ma qui vengono presentati in altra forma e, soprattutto, vengono uniti ad altri per affinità di carattere.

Questo primo saggio viene pubblicato come un’opera imperfetta ed affrettata, ma anche sotto queste circostanze, lo offriamo ai lettori nella speranza che possa essere usato da Dio come mezzo di benedizione ed edificazione.

  Faccia parte d’ogni suo bene… Galati 6:7 

Nella chiesa cristiana c’è colui che ammaestra e colui che è ammaestrato, cioè il predicatore ed il fedele. Colui che ammaestra è il servo di Dio, il conduttore del popolo, il ministro cristiano, mentre colui che è ammaestrato è un membro della comunità: una pecora del gregge spirituale.

Colui che ammaestra e colui che è ammaestrato appartengono a Dio; sono ambedue figliuoli di Dio e perciò sono fra loro “fratelli nel Signore”, però i loro doveri verso Dio sono diversi ed anche i doveri che hanno l’uno verso l’altro non sono uguali.

Il predicatore ha il dovere di esercitare il ministero e quindi ha il dovere di applicarsi costantemente “alla parola e alla preghiera” (Fatti 6:4), ed il fedele ha il dovere di ascoltare la parola e di sottomettersi all’autorità del ministro. Il predicatore ha il dovere di curare il ministero e di assolverlo nella guida di Dio, ed il fedele ha il dovere di onorare il ministero e di riconoscerlo e stimarlo in Dio. Il predicatore ha il dovere di porgere al fedele tutto il bene spirituale che è contenuto nell’ammaestramento e nell’esortazione, ed il fedele ha il dovere di porgere al predicatore tutta la propria stima e tutta “l’assistenza materiale” che è necessaria al sostentamento della sua vita.

I doveri sono diversi, ma questi doveri si compiono in Dio e, nella fedeltà ad essi, rendono ugualmente graditi davanti a Dio: è gradito il predicatore che inistancabilmente ammaestra il fedele, ed è gradito il fedele che amorevolmente si prende cura del predicatore e lo sovviene nelle sue necessità.

L’uno ammaestra, cioè porge i beni spirituali, e l’altro fa parte d’ogni suo bene e cioè offre le sue sostanze materiali (Rom. 15:27; 1 Cor. 9:11).

Questo insegnamento cristiano è chiaramente espresso nella Scrittura e ci viene presentato, non come un consiglio che possa essere accettato o possa essere rifiutato, ma come un comandamento di Dio: come colui che ha ricevuto il ministero “ha l’obbligo” di ammaestrare il fedele, così il fedele che gode i frutti del ministero “ha l’obbligo” di far parte dei suoi beni a colui che lo ammaestra.

Gesù stesso ha continuamente ricordato questo comandamento attraverso l’esempio della sua vita; egli ha accettato sovvenzioni dalle donne che lo seguivano, egli ha accettato l’invito di coloro che lo volevano ospite nella loro casa (Luca 8:3; Luca 7:36). Soltanto eccezionalmente il Maestro divino ha moltiplicati pani e pesci e ha fatto pescare un pesce con una moneta in bocca; normalmente invece ha accettato mense imbandite, case per riposare, cavalcatura per viaggiare… e nella morte ha anche accettato una sepoltura preparata per altri. Nel mandare i suoi servitori per le contrade della Palestina prima e per il mondo dopo, ha chiaramente detto che dovevano attenersi al piano di Dio e perciò come servitori di Dio si dovevano occupare soltanto del ministero ricevuto ed aspettare che altri si fossero presi cura di loro per le necessità materiali della loro vita (Luca 22:35; Matteo 10:10; Luca 10:7).

L’esame delle Scritture ci dimostra che i servitori di Dio si attennero fedelmente a questo “comandamento” perché lo interpretarono non come un consiglio che poteva essere accettato o rifiutato, ma come un ordine che non andava discusso.

Le chiese cristiane di questi giorni invece cercano di nascondere questa verità scritturale e quando, qualche rara volta, essa appare in mezzo ad altre verità, cercano di discuterla per poterla rifiutare o modificare. Noi tutti purtroppo conosciamo gli argomenti di queste discussioni, mosse soltanto dall’avarizia e dalla carnalità.

Di fronte al comandamento di Dio ogni discussione cade, deve cadere, perché noi non abbiamo nessun diritto di sollevare obiezioni alla legge dell’Eterno; dobbiamo ubbidire e soltanto ubbidire perché questo è il nostro obbligo di credenti.

Se il ministro abbandona il sentiero della consacrazione per divenire mercenario o se il ministro volta le spalle alla spiritualità per divenire avaro, deve rispondere a Dio di queste sue infedeltà, ma noi “non abbiamo nessun diritto” di rifiutare quello che siamo “obbligati” a dare, soltanto perché esistono queste probabilità e queste tentazioni sul sentiero cristiano di “colui che ammaestra” cioè del servo del Signore.

Quando noi accettiamo questa verità come “comandamento di Dio” ci accorgiamo che tutte le nostre scuse perdono valore e tutte le nostre considerazioni diventano ridicole. Un esempio può aiutare a comprendere questa verità.

Supponiamo di avere un servitore alle nostre dipendenze e supponiamo di aver stabilito e contrattato con lui lo stipendio mensile che intendiamo corrispondergli; quando termina il mese di lavoro noi gli paghiamo quello che gli è dovuto senza preoccuparci di sapere come egli spenderà il denaro e senza preoccuparci di sapere se quel denaro lo renderà troppo ricco. Noi pensiamo soltanto che “abbiamo un dovere” quello di corrispondere quanto dovuto; l’uso del denaro diventa poi un diritto ed un dovere di colui che l’ha ricevuto.

Questo esempio serve soltanto ad imprimere più profondamente il concetto “del dovere” perché se “fare parte di ogni bene a colui che ammaestra” è un comandamento, e noi crediamo fermamente che sia un comandamento, noi dobbiamo eseguire quest’ordine divino senza discutere. D’altronde un servitore di Dio sincero ed onesto non diventerà mai un professionista, un mercenario, ed anche se qualche volta si troverà nell’abbondanza, egli saprà mantenersi fedele in quella condizione come nella condizione opposta (1 Pietro 5:2; Fil. 4:11-12).

Non dobbiamo e non possiamo infatti negare anche ad un servo dell’Eterno il diritto di trovarsi qualche volta nell’abbondanza onde possa lodare Iddio per essa e tanto meno possiamo negare ad un servo di Dio il diritto di avere abbastanza per poter operare, come gli altri, il bene; per poter dare, come tutti, il proprio contributo economico alla gloria del Signore.

Non dobbiamo pensare a lui come ad uno stipendiato perché con lui non abbiamo un impegno contrattuale, ma non dobbiamo neanche dimenticarci di lui, mentre la Parola e lo Spirito ci indicano il dovere che dobbiamo adempiere e ci chiariscono “anche la misura” del nostro obbligo verso il ministro che ci ammaestra.

Questa verità dimenticata non rappresenta soltanto un comandamento trasgredito, ma anche una benedizione respinta. Dare beni materiali a coloro, che nel nome del Signore, ci largiscono beni spirituali, rappresenta infatti una meravigliosa benedizione per l’anima del credente; nel dare c’è gioia, nel dare c’è approvazione da Dio, nel dare c’è la retribuzione di Dio.

Il credente che da, che offre al ministro, che assiste il ministro non perde quello che largisce perché lo ritrova moltiplicato nella propria vita, spiritualmente e materialmente. Iddio è fedele ed Egli onora sempre la Sua parola e benedice tutti coloro che rispettano i Suoi comandamenti.

Quando infatti l’apostolo Paolo scrisse la sua lettera ai Filippesi, non soltanto non trascurò di ringraziarli per la generosa offerta che gli avevano mandato e non soltanto non trascurò di esprimere tutta la gioia che aveva provata nel ricevere il loro aiuto, ma sentì il dovere cristiano di precisare che la sua gioia non veniva “perché cercava e desiderava presenti e regali, ma perché desiderava che i fedeli portassero molto frutto per il loro bene” (Filippesi 4:17).

L’apostolo sapeva bene che nel sottomettersi al “comandamento” di Dio che ordina di aiutare i servitori cristiani, c’è una benedizione gloriosa per il fedele e per la chiesa.

Anche nella lettera ai Corinti egli si ferma lungamente a parlare di questa verità ed è obbligato a ricordare ai fedeli di quella chiesa che se durante il tempo che ha svolto un ministerio nel mezzo di loro, non si è fatto sovvenire dai fedeli e dalla chiesa è stato soltanto “per togliere occasione a coloro che cercavano occasione” (2 Cor. 11:12).

Chi ha “perduto” in questa circostanza non è stato però Paolo, ma sono stati gli stessi credenti di Corinto ed infatti l’apostolo è costretto a dichiarare chiaramente che in “ogni cosa la chiesa di Corinto è stata come le altre chiese, ma in una cosa è stata inferiore alle altre chiese e cioè è stata inferiore nel ministerio del dare perché non ha sovvenzionato colui che porgeva l’ammaestramento nel nome del Signore…” (2 Cor. 12:13).

Quindi “non fare parte dei propri beni” a colui che ammaestra rappresenta una perdita, un regresso, per essere più chiari uno scendere in basso nella vita spirituale. Per progredire, per essere benedetti dobbiamo accettare questo comandamento di Dio senza discutere e dobbiamo metterlo in pratica.

L’ubbidienza a questa particolare verità cristiana ci farà compiere un’altra meravigliosa scoperta; la parola di Dio ed il servo di Dio acquisteranno più valore nel nostro cuore. Noi non “pagheremo” mai la parola e non “compenseremo” mai il ministero; infatti questi sono doni di Dio agli uomini; ma quando daremo in maniera pratica l’espressione del nostro affetto, ci sentiremo realmente interessati e maggiormente avvinti, in conseguenza della nostra totale partecipazione. No, non penseremo di aver pagato quello che ci è stato dato perché quello che ci è stato dato, ci è stato dato in dono nel nome del Signore, ma sentiremo almeno di aver dato anche noi un contributo reale all’opera del ministero e di aver espresso in un modo chiaro il nostro consenso cristiano.

E mentre la parola ed il ministro acquisteranno maggior valore per noi, anche noi credenti acquisteremo maggior valore per il ministro. E’ necessario comprendere bene questa importantissima dichiarazione: i fedeli sono sempre di grande valore davanti alla coscienza del servo di Dio ed il loro valore non cambia in ragione di quello che danno, che offrono, che largiscono: tutti sono ugualmente pecore del gregge del Signore, ma è anche logico che il predicatore si senta più aperto verso coloro che l’incoraggiano.

Quando un servitore di Dio predica la parola e ha davanti a se fedeli distratti o sonnacchiosi, si sente scoraggiato nel suo ministero, quando invece ha una congregazione attenta ed entusiasta che lo ascolta e si riscalda di fronte alla parola che viene predicata, allora si sente incoraggiato e quei fedeli diventano preziosi al suo cuore. Ebbene, quando il servo di Dio vive in mezzo ad una chiesa che oltre a mostrare attenzione durante la predica, oltre a riscaldarsi ed entusiasmarsi nelle riunioni di culto, mostra anche un interesse vero ed affettuoso per “colui che ammaestra nella parola”; quando il servo di Dio, ripetiamo, vede intorno a se questa sollecitudine spirituale e cristiana, si sente incoraggiato per prodigarsi a favore di un popolo prezioso agli occhi di Dio ed anche al suo cuore di servo del Signore.

L’ubbidienza a questa verità conduce quindi ad un profondo rapporto di comunione e di amore fra il popolo ed il ministro e fra il ministro ed il popolo, ma non dimentichiamoci che conduce anche a valorizzare fino ai limiti più elevati l’opera del ministero. Oggi, infatti ci sono molti servi dell’Eterno, che sono trascurati dal popolo e perciò sono obbligati ad abbandonare il servizio di Dio per occuparsi di un lavoro profano, che permetta loro di provvedere ai bisogni della famiglia. E’ la stessa tragica situazione dei giorni di Neemia, giorni di prova e di crisi spirituale per il popolo di Dio. (Neemia 13:10).

Un predicatore occupato completamente in un lavoro profano, non ha il tempo necessario per investigare la Scrittura, per pregare e per darsi totalmente al ministero; stanco, turbato, preoccupato, distratto, egli potrà dare al servizio spirituale le briciole di energia e di serenità che gli rimangono.

Questa situazione si riflette sulla chiesa perché la chiesa riceve esattamente quello che il ministro porge, quello che il ministro può dare.

Quando invece il servo di Dio viene posto in condizione da offrire tutto il tempo, tutte le energie, tutta la serenità al ministero, la chiesa riceve il beneficio di un servizio pieno, efficace; non saranno più le briciole, i pensieri stentati e turbati spesso dalle preoccupazioni, ma saranno le perle delle dispense divine che il ministro avrà potuto raccogliere nelle ore di studio spirituale e di comunione con Dio.

E’ necessario riportare in luce il comandamento divino, la verità trascurata e sottoporre ad esso la nostra vita perché in quest’atto di sottomissione fedele è racchiusa la nostra benedizione.

Dobbiamo dare, dare con generosità, dare con convinzione. Non deve essere, naturalmente, l’elemosina del prodigo al mendicante o l’offerta dell’orgoglioso al servo, ma deve essere il contributo affettuoso del membro della famiglia di Dio che è consapevole dei propri diritti e dei propri doveri davanti a Dio.

L’offerta deve essere, per quanto è possibile, anonima; la sinistra deve ignorare quel che fa la destra perché l’offerta è fatta a Dio e deve giungere al servitore da parte di Dio.

In questo modo nessuno si sentirà umiliato dalla povertà della propria offerta e nessuno si sentirà inorgoglito dall’abbondanza del proprio dono. Anche il ministro si sentirà libero e sereno nella medesima maniera verso tutti.

L’offerta deve essere in proporzione “dei nostri beni” perché deve essere una “parte dei nostri beni”. Iddio non ci chiede mai quello che “non” possiamo dare e quindi stabilisce che ognuno dia in proporzione delle proprie sostanze, ma vuole che “ognuno dia” perché “ognuno riceve”. Forse non è opportuno dire quanto bisognerebbe dare perché è soprattutto importante incominciare a dare; certamente coloro che incominceranno a godere le benedizioni del dare si sentiranno sempre più incoraggiati alla fedeltà, dai risultati della loro ubbidienza e diventeranno così aperti e sensibili da discernere in modo preciso la guida dello Spirito Santo anche in questo particolare aspetto della volontà di Dio.

Concludiamo col ripetere semplicemente le parole: “Colui che è ammaestrato nella parola faccia parte di ogni suo bene a colui che lo ammaestra”.

 Il carname e le aquile   Matteo 24:28; Luca 17:37

  I due versi hanno fra loro una piccola differenza; nell’Evangelo di Matteo leggiamo “ove sarà il carname…”, mentre nell’Evangelo di Luca troviamo scritto “ove sarà il corpo…”.

Carname è una parola che esprime chiaramente l’idea del cadavere, mentre corpo può anche riferirsi ad un organismo vivente. In Matteo 14:12 veramente la stessa parola è riferita direttamente ad un cadavere.

Crediamo che la frase di Gesù poteva essere un proverbio della Palestina ben conosciuto dai discepoli, come crediamo che l’immagine che sorge da queste parole può essere soltanto una: “Un campo di battaglia dopo il combattimento”.

E’ cessato il rumore, le grida, l’incrociar delle armi, ed è rimasto soltanto lo spettacolo orrendo di sangue, corpi morti, membra sparse. Intorno a quell’orribile tavola di morte incominciano a stringersi le fiere della terra ed i rapaci del cielo: è il giudizio finale, la fine terribile di quei corpi di combattenti caduti nel fango.

Quest’immagine sembra essere la risposta alla domanda dei discepoli che quasi terrorizzati dalle parole del Maestro chiedono: “Dove, Signore?”. Essi desiderano conoscere la località nella quale si manifesteranno i giudizi divini e Gesù con la risposta proverbiale asserisce che non in un posto stabilito geograficamente, bensì in un luogo delimitato dalle condizioni morali e spirituali piomberanno gli strumenti della distruzione.

Non qui o lì, non in questa città o in un’altra città, ma dove ci sarà il carname, i corpi dei vinti, degli uccisi; dove ci sarà la morte, la putrefazione, il sangue, lì si raduneranno le aquile o, come hanno tradotto altri, forse più giustamente, gli avvoltoi.

Non sembra possibile fare un’applicazione diversa da quella del “giudizio” e non sembra possibile vedere nelle aquile o negli avvoltoi una figura diversa di quella degli strumenti dell’ira divina come appare anche in Osea 8:1 e Proverbi 30:17. Gesù aveva detto: “…se quei giorni non fossero abbreviati niuna carne scamperebbe…”, quindi aveva già suggerita l’idea del “carname in disfacimento, in putrefazione” e perciò la frase conclusiva appare come una chiusura logica di quello che è stato detto precedentemente.

D’altronde se, come crediamo, la frase del Maestro era soltanto una citazione di un proverbio popolare, quale altro significato poteva avere sulla bocca degli israeliti?

Voler vedere nel “carname” o nel “corpo” la figura di Cristo o la figura della chiesa o la figura dello Spirito Santo, come alcuni hanno affermato, e voler vedere nelle aquile i “credenti” che si raccolgono intorno all’oggetto del richiamo, significa soprattutto dare un significato che non poteva essere espresso dal proverbio popolare e perciò noi crediamo che le parole di Gesù vogliono soltanto riferirsi alla manifestazione finale del giudizio divino che sarà attuato sopra quelle persone e sopra quei luoghi, vinti dalla morte e dalla putrefazione conseguenti al peccato (Apoc. 20:10,15; Matteo 13:30; Matteo 22:13).

Cristo infatti ha illustrato i giudizi che piomberanno sopra gli uomini, non sopra tutti gli uomini, ma sopra quelli che hanno rifiutato Iddio, che si sono ribellati all’amore e alla misericordia di Dio. I giudizi si manifesteranno in maniera distruttiva, potremmo dire vorace, fino a consumare tutti gli increduli e tutti i superbi proprio come gli avvoltoi consumano il carname con i loro rostri e i loro artigli.

I discepoli vogliono sapere dove si manifesteranno queste scene terrificanti di distruzione ed il Maestro con la sua risposta chiarisce che il giudizio ha un carattere universale, come anche la salvezza ha un carattere che la pone fuori del limite delle nazioni e dei popoli.

  Verecondia e modestia 1 Tim. 2:9

 Questo preciso insegnamento evangelico viene dato particolarmente alle donne cristiane; non dobbiamo pensare naturalmente che gli uomini non abbiano bisogno di questa lezione, ma dobbiamo semplicemente riconoscere che soprattutto le donne si trovano in una condizione che le espone a maggior tentazione per quanto riguarda l’esercizio della verecondia e della modestia.

Tutti sappiamo infatti che la tendenza naturale della donna è quella di rendersi attraente, piacevole e tutti sappiamo anche che spesso questa tendenza conduce la donna ad oltrepassare i limiti della verecondia e della modestia.

Nel mondo ormai la donna ha raggiunto il traguardo dello scandalo, e l’esposizione invereconda delle nudità femminili è cosa che si può incontrare e vedere non soltanto sulle spiagge, ma anche nelle pubbliche vie e nei locali mondani. La immodestia poi, è considerata la manifestazione più normale e più lecita, delle aspirazioni femminili e tutte trovano naturale adornarsi di gioielli o di abiti che rappresentano lo sperpero più peccaminoso o più vano del denaro che hanno, e qualche volta anche del denaro che non hanno.

Purtroppo però il “mondo” è anche entrato nella chiesa ed oggi son pochi quei credenti che danno ancora importanza a questa precisa norma della parola di Dio. Non vogliamo dire che nelle chiese si incontrano le medesime manifestazioni d’inverecondia e di immodestia che esistono nel mondo, però possiamo affermare che i cristiani hanno presa la strada larga che conduce a quella tragica condizione.

La chiesa di oggi non è più la chiesa di ieri, e le cristiane di oggi sono completamente diverse da quelle del passato; la differenza è costituita proprio dal fatto che ieri la chiesa viveva in mezzo al mondo, ma separata dal mondo, mentre oggi il mondo vive in mezzo alla chiesa e spesso confuso con la chiesa. Qualche volta, in parte si distingue ancora quello che è il mondo e quella che è chiesa, ma il cammino dei cristiani è avviato verso una condizione che annullerà ogni “distinzione” e fra non molto, (se prima non verrà un risveglio a far risorgere la chiesa) non si potrà più notare dove finisce il mondo ed incomincia la chiesa o dove finisce la chiesa ed incomincia il mondo.

Le gonne che si accorciano, le maniche che scompaiono, le scollature che si allargano e si allungano, le aderenze che si accentuano, gli articoli di moda che moltiplicano e diventano più preziosi…sono tutti piccoli passi verso una comunione col mondo e quindi verso una condizione d’inverecondia e immodestia.

Non è difficile infatti trovare nel seno delle chiese, cioè fra le donne cristiane, i primi audaci tagli delle chiome femminili, le prime ardite arricciature, le prime ciprie colorate, i primi cosmetici, i primi trucchi, i primi bracciali d’oro, le prime spille preziose, i primi anelli risplendenti…Sono i primi, ma non saranno gli ultimi!

Quando le nostre madri spirituali accettarono il messaggio della salvezza, accettarono anche la regola della verecondia e della modestia. Forse ebbero opportunità di udire un solo sermone su questo argomento, ma lo Spirito di Dio inondò la loro coscienza e fece chiaramente comprendere che ormai dovevano vivere per piacere a Colui che le aveva chiamate. Per loro non significava avvilirsi, rendersi ridicole, ma significava uniformarsi alla testimonianza cristiana delle serventi del Signore di ogni secolo.

Non si curarono più del mondo e della moda, e non sentirono più il bisogno di rendersi attraenti nel senso umano della parola: indossare degli abiti verecondi fino alla rigidezza, rinunciare all’ornamento dei monili e dei gioielli non apparve come un sacrificio pesante e insostenibile, ma come un atto cristiano, normale, logico e quindi come un atto cristiano che poteva essere compiuto gioiosamente.

Per comprendere bene questo comandamento evangelico è necessario considerarlo nei diversi particolari; esaminiamoli brevemente nelle righe che seguono.

Noi crediamo che una figliuola di Dio deve vivere come figliuola di Dio dentro la chiesa e fuori della chiesa; cioè deve vivere nella medesima maniera sia quando è occupata nelle sue attività lavorative e familiari, e sia quando si presenta davanti a Dio nelle riunioni di culto. Ebbene, se nella sua vita non deve esistere un duplice cristianesimo, ella deve avere una regola sola per tutte le azioni della sua vita e quindi anche per il vestire.

Essere vereconda in chiesa e invereconda fuori della chiesa, od essere modesta nelle riunioni di culto, ed immodesta nella sua vita privata significherebbe avere due regole di vita diverse e queste due regole diverse sarebbero semplicemente la manifestazione di un cristianesimo vissuto a metà oppure di un cristianesimo falso ed ipocrita.

Quindi se la donna cristiana vive il cristianesimo in maniera sincera, non segue due regole, ma vive fuori della chiesa esattamente nello stesso modo come vive nel seno della chiesa; anche per il vestire segue una norma sola, quella ispirata dal timore di Dio.

Non è neanche necessario soffermarsi a dire che nella chiesa, cioè nella presenza di Dio, durante le riunioni di culto, è doveroso seguire una regola di dignità e di ordine, ma è riprovevole qualsiasi manifestazione d’inverecondia e immodestia. La casa del Signore non può, non deve mai essere confusa con un luogo nel quale si acceda per dare spettacolo della propria eleganza o della propria ricchezza.

Così si esprimeva nell’antichità un grande servitore di Dio: “Tu vieni verso Dio per pregarlo e sei coperta di ornamenti d’oro! Vieni forse al ballo per danzarvi? Vieni per celebrare una festa nuziale e farti ammirare?… E poi continua: Vieni per pregare e supplicare per i tuoi peccati…Perché tanta bardatura? Non sono questi gli abiti d’una supplicante. Come puoi gemere?

E poi conclude severamente: “Non si burla Iddio!”.

Davanti a Dio non è lecita l’inverecondia e non è lecita l’immodestia e poiché una donna cristiana deve vivere “sempre davanti a Dio” e deve avere una medesima regola ovunque compia le sue azioni, non può di conseguenza procedere dentro la chiesa in un modo e in un altro modo quando si trova fuori e lontana dalla chiesa; non può seguire due norme e vestire santamente e cristianamente quando frequenta l’ambiente cristiano, e vestire in maniera sfarzosa ed invereconda quando si trova mescolata al mondo: cioè cristiana con i cristiani e mondana con i mondani.

Un grande evangelista americano ripeteva frequentemente, nelle riunioni riservate esclusivamente alle donne cristiane: – Voi potete far aprire o chiudere le porte dell’inferno.

C’è ancora un’altra ragione che afferma la necessità della verecondia ed è una ragione non meno importante della precedente che abbiamo già esposta: la donna cristiana non deve essere mai un motivo di tentazione se non vuol divenire collaboratrice dell’inferno.

Tutti sappiamo purtroppo che le mille arti della moda servono soprattutto a rendere la donna piacevole, attraente, cioè servono ad eccitare i desideri insani degli uomini; la gonna che termina ad un certo punto o quella che stringe in una certa maniera; la scollatura che apre indiscretamente le nudità, od il farsetto che accentua le forme, sono tutte cose che servono ad alimentare la concupiscenza…

Nel mondo è lecito seguire l’arte della moda, anzi non seguirla rappresenta rinunciare alla “lotta” della concorrenza che ha tanto valore per le fanciulle che aspirano al matrimonio, quanto per le coniugate che aspirano a rimanere belle ed attraenti per non perdere terreno nella battaglia della vita. Non dobbiamo meravigliarci che questa lotta si svolge con le armi del peccato perché nel mondo tutto, generalmente, incomincia e termina con il peccato.

La donna cristiana, invece, fanciulla o coniugata, non deve essere uno strumento dell’inferno e non deve provocare una concupiscenza peccaminosa, ma deve offrire il sano spettacolo del pudore, della verecondia, della modestia. La sua lotta non è e non deve essere carnale, ma spirituale e perciò ella non si deve unire alle donne che non conoscono Iddio per competere con loro e cercare unita a loro, di conquistare posizioni umane, di rendersi piacevole, interessante. No! deve soltanto desiderare di rendere una testimonianza luminosa della propria fede alla gloria di Dio.

La modestia poi, ha ancora un altro motivo cristiano che la sostiene: il motivo economico. Una figliuola di Dio non è libera di impiegare il proprio denaro come vuole, e quando vuole ma deve amministrarlo nel timore e nella volontà di Dio.

Abiti sontuosi, pellicce costose, stoffe pregiate, guarnizioni ricercate rappresentano spese che non vanno soltanto contro la modestia, ma anche contro l’amore. Abiti per tutti i giorni, per tutte le occasioni, per tutti i gusti, vestiti che riempiono i guardaroba fino all’ultimo spazio, che si pigiano nei ripostigli, tutto questo è contro ogni norma dell’Evangelo; la donna cristiana, come l’uomo cristiano, è stata salvata perché viva per il cielo, e perciò è stata salvata per uniformare la propria vita a quella legge che insegna ad offrire la mente, il cuore, l’energia, il denaro per il lavoro di Dio che è poi il lavoro a favore degli uomini. Quando la donna cristiana invece di vivere “alla gloria di Dio” si preoccupa soltanto di “vestire porpora e bisso e godere splendidamente” come il ricco epulone descritto dall’evangelista Luca, diviene infedele di fronte a Colui che l’ha chiamata.

L’Evangelo c’insegna che le pie donne che seguivano Gesù lo sovvenivano con le loro sostanze (Luca 8:3); Maria versò sopra il Maestro l’anfora di olio odorifero che forse teneva in serbo per il giorno delle sue nozze (Giov. 12:3); le Marie comprarono degli aromi per onorare il Signore morto ed imbalsamare il suo corpo (Marco 16:1). Queste donne dimostrarono praticamente il loro sincero amore per Gesù e non soltanto offrirono “qualche cosa”, ma rinunciarono “a qualche cosa”.

Un’offerta non è mai una vera offerta se non costa una rinuncia e la legge divina insegna ad offrire e a rinunciare. Rinunciare alla moda, rinunciare all’eleganza, sfarzosa, rinunciare all’abbondanza, rinunciare…alla vanità vuol dire poter offrire alla chiesa, poter offrire alle missioni, poter offrire ai servitori di Dio, poter offrire ai poveri, cioè poter offrire a Dio stesso.

Oggi però sono poche le donne cristiane che prima di appagare il proprio capriccio si chiedono se la somma occorrente per un vestito superfluo “potrebbe servire al Signore”, (Matteo 21:3); sono poche coloro che sono disposte ad essere modeste anche se le altre non lo sono. Tutte o quasi tutte si sentono libere di spendere il denaro come vogliono e, naturalmente, cercano di spenderlo in maniera da fare la più splendida figura, in maniera da non “esser da meno delle altre”.

E’ una corsa sfrenata verso lo sperpero inutile, verso le spese disordinate; una corsa che serve soltanto ad appagare i sentimenti della vanità umana e a soffocare il dovere verso Iddio e verso l’opera di Dio.

La verecondia, la modestia non esistono più e quando qualche predicatore le ricorda con nostalgia si sente rispondere che forse quelle virtù erano eccellenti nel passato, ma sono divenute inutili al presente; volerle seguire significherebbe, affermano le fanciulle frivole d’oggi, dimostrare un fanatismo bigotto e ridicolo.

Non dobbiamo essere diverse dalle altre, non dobbiamo farci criticare dal mondo, non dobbiamo apparire brutte, quindi seguiamo la moda, vestiamoci bene e cerchiamo, anche con la nostra eleganza, di combattere la nostra battaglia fuori della chiesa e dentro la chiesa. Queste parole molte volte non vengono dette, ma vengono pensate, altre volte invece fanno proprio parte delle conversazioni delle donne cristiane d’oggi.

“Verecondia e modestia” quindi entra fra quegli argomenti dimenticati che non si predicano e non si praticano più; eppure le sante donne di Dio anche oggi, come ieri, sono chiamate a vestirsi come “donne che fanno professione di servire a Dio” (1 Pietro 3:5); lontane dalle seduzioni della moda e dalle tentazioni dell’inferno, devono indossare abiti che non siano mai una provocazione e devono essere modeste fino al punto di rifiutare ogni contributo alla vanità.

Sante interiormente ed esteriormente, illibate nei sentimenti e nella testimonianza cristiana, le fanciulle e le donne attempate devono sentire un solo desiderio: quello di rendersi piacevoli ed approvate davanti a Dio. Forse il mondo potrà giudicarle poco eleganti o poco interessanti, ma non potrà mai condannarle per trasgressione alla legge divina. Le pie donne che eleggeranno la regola dell’Evangelo riusciranno, oltre tutto, a strappare anche il loro denaro alle voglie dell’inferno, per consacrarlo devotamente alla causa di Dio e per la gloria di Dio.

  Se hanno fatto queste cose al legno verde… Luca 23:31

Questo verso dell’Evangelo di Luca non dovrebbe essere incluso fra i punti controversi della scrittura perché non ha in se nulla di misterioso e nulla di equivoco, ma invece siamo costretti a considerarlo d’incerta interpretazione a causa dell’uso errato che si è fatto e si fa di esso.

Generalmente infatti circola nelle chiese sotto forma proverbiale per esprimere un concetto che può essere reso con le seguenti parole: “Gesù era il legno verde, noi suoi discepoli siamo il legno secco perché siamo venuti dopo lui e quindi abbiamo attraversato l’azione del tempo. Gesù è stato perseguitato, imprigionato, condannato, oltraggiato quando l’inferno ed il mondo non erano ancora organizzati completamente contro il cristianesimo. Noi che siamo venuti dopo siamo “fatalmente destinati” a subire l’ira organizzata del mondo e dell’inferno in una maniera ancora più dura e più pesante di quella subita dal Maestro. In conclusione: “Quello che hanno fatto a Lui lo faranno “in misura maggiore” a noi credenti, a noi suoi discepoli”.

Noi non siamo d’accordo con questa interpretazione che, d’altronde, è in contrasto con il contesto, cioè con il passo dell’Evangelo nel quale il versetto è contenuto; quindi sosteniamo quella che è l’interpretazione più comune e più logica.

L’evangelista Luca descrive in questo capitolo il tragico episodio che precede la crocifissione: Gesù sulla via del Golgota. E’ un corteo doloroso quello che si snoda per la strada che da Gerusalemme sale fino alla collina del teschio; non c’è soltanto il mite Agnello di Dio sanguinante ed esausto dopo la notte insonne e dopo la flagellazione crudele, non ci sono soltanto i due condannati, che sono stati aggiunti per compiere una sola esecuzione, non ci sono soltanto i sacerdoti soddisfatti e i soldati, forse eccitati dal particolare servizio, ma c’è anche una folla, una “moltitudine di popolo” che è uscita dalla città per assistere al triste spettacolo.

Nel mezzo di questa folla l’elemento femminile è largamente rappresentato e fa notare la propria presenza a causa di quell’emotività che è propria delle donne in generale e delle donne orientali in particolare. Le “donne”, è scritto, facevano cordoglio e lo lamentavano.

Possiamo domandarci: Chi erano queste donne? Queste “figliuole di Gerusalemme” come le chiama Gesù nel suo breve discorso?

E’ logico che siano le donne di quella medesima popolazione che ha gridato: “Sia crocifisso, sia crocifisso”. Le donne di quella città sopra la quale Gesù ha pianto; di quella città che non ha riconosciuto e ha respinto la visitazione di Dio. In quella circostanza il Maestro aveva detto: – Ti sopraggiungeranno giorni, nei quali i tuoi nemici ti faranno degli argini attorno e ti circonderanno e ti assedieranno d’ogni intorno. E atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te; e non lasceranno in te pietra sopra pietra…”. Luca 19:41.

Esse non hanno accettato il Redentore ed ora piangono; sono state pronte ad esaltarlo e sono state pronte a rinnegarlo; hanno forse desiderato averlo re sopra loro, e altrettanto fortemente hanno desiderato vederlo condannato.

Si sono lasciate entusiasmare dalle parole di Gesù e poi si sono lasciate influenzare e convincere dalle parole dei sacerdoti e degli anziani che volevano la morte di Gesù. (Matteo 27:20).

In quel pianto c’è soltanto emotività superficiale che Gesù non può raccogliere come un omaggio sincero di amore e di fede. Le parole del Maestro quindi si rivolgono non ai discepoli, non ai credenti, ma alle donne di quella città sanguinaria che “uccideva i profeti e lapidava i messaggeri di Dio…” (Matteo 23:37). “Piangete per voi e per i vostri figliuoli” perché voi, proprio voi, sembra quasi dire Gesù, avete chiesto che il mio sangue “ricadesse sopra voi e sopra i vostri figliuoli” (Matteo 27:25).

Piangete per voi perché se il legno verde è stato bruciato, non potrà essere risparmiato il legno secco.

Forse è utile ricordare che nel linguaggio figurativo degli israeliti il legno verde era il simbolo del “giusto” di colui che ha vita, che porta frutto, che non è adatto per il fuoco, mentre il legno secco era la figura dell’empio, di colui cioè che non ha più vita, che non porta frutto e che è riservato “soltanto” al fuoco (Ezech. 21:3,8; Matteo 3:10; Giov. 15:6).

Se il giusto Agnello di Dio a causa dei peccati commessi dal mondo, ha subito il peso di una condanna e di una morte crudele ed ignominiosa, che cosa verrà su quella nazione, su quella città che dopo averlo rifiutato come Messia, dopo averlo respinto come Salvatore, lo ha condannato come eretico e lo ha ucciso come micidiale?

Gerusalemme appare sotto il peso di tutti i peccati della sua storia, di tutte le infedeltà e le ribellioni consumate contro a Dio e davanti a Dio e, aggiunto a questi, appare sotto il peso schiacciante del peccato terribile commesso nel condannare e nell’uccidere il Santo. (Matteo 23:35).

L’ira che si è accumulata sopra Gerusalemme ha raggiunto proporzioni terrificanti e Gesù parla dell’immane uragano che si sta per scatenare sopra quel popolo; le sue parole sono terribilmente chiare: “…i giorni vengono che altri dirà: Beate le sterili; e beati i corpi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno lattato. Allora prenderanno a dire ai monti: Cadeteci addosso; ed ai colli: Copriteci…”. (Luca 23:29-30).

Chi ha letto le descrizioni storiche dell’atroce e lungo assedio di Gerusalemme e, soprattutto, chi si è fermato a considerare la capitolazione di quella città di fronte agli eserciti di Tito nell’anno 70, non può fare a meno, di fronte alle terribili descrizioni di miseria, fame, sangue, crudeltà ed orrori, di ricordare le profezie di Gesù ed il suo breve discorso alle figliuole di Gerusalemme.

Il male produce sempre e inevitabilmente conseguenze della stessa natura e se qualche volta avviene, perché i misteriosi piani divini siano adempiuti, che queste conseguenze colpiscano anche coloro che non hanno prodotto o provocato il male, più comunemente e più naturalmente avviene che le conseguenze, in tutta la loro potente e dolorosa manifestazione, ricadano sopra coloro che sono stati autori diretti del male.

Perciò Gesù non voleva parlare della futura condizione della chiesa e della sorte riservata ai discepoli, ma voleva soltanto sottolineare la tragica condizione che attendeva Gerusalemme, la città ribelle. Le figliuole di Gerusalemme non avevano ormai molta ragione per piangere di lui che era giunto al termine del suo ministero glorioso, ma avevano mille motivi per piangere per loro stesse e per le loro famiglie che stavano per essere colpite dalla più terribile bufera della loro storia.

Con la spiegazione di questo verso non abbiamo voluto negare che la chiesa cristiana deve essere perseguitata. Gesù stesso ha detto: “Se il mondo vi odia, sappiate, che egli mi ha odiato prima di voi…se hanno perseguito me, perseguiteranno ancora voi…” (Giov. 15:18, 20).

Però vogliamo ribadire il concetto che ogni verità cristiana deve essere illustrata con il verso o con i versi che parlano di essa perché quando noi vogliamo illustrarla e sostenerla con uno  o più passi della scrittura che esprimono un argomento diverso, commettiamo un duplice errore: alteriamo il senso della parola di Dio e respingiamo l’insegnamento che è realmente contenuto nei versi della Bibbia; perciò dobbiamo cercare diligentemente il significato di ogni verso affinché tutta la Bibbia possa parlare un linguaggio comprensibile alla nostra mente e al nostro cuore.

  Pasti di carità Giuda 12

Una delle più belle manifestazioni della vita cristiana, nella chiesa primitiva, era quella della comunione fraterna e dell’intimità familiare.

Sin dai primi giorni della chiesa i credenti cercarono di vivere realmente come una famiglia sola per realizzare quell’intimità e quell’amore che si trovano soltanto nell’esercizio della vera comunione fraterna. Probabilmente in alcuni casi oltrepassarono i limiti della guida di Dio, ma in linea generale riuscirono a vivere un cristianesimo nel quale l’amore era posto veramente al centro di ogni attività e di ogni sentimento.

In quell’atmosfera di entusiasmo caldo e sincero e di amore puro e profondo furono istituiti i “pasti di carità”, pratica cristiana ricca di benedizioni e apportatrice di esperienze salutari.

L’origine dei “pasti di carità” fu delle più semplici e delle più logiche: i discepoli insegnarono ai nuovi convertiti quelle abitudini che Gesù aveva insegnato loro. Per questo unico motivo i primi cristiani si trovarono, come familiari nella grazia, a “prendere il loro cibo assieme, con letizia e semplicità di cuore” (Atti 2:46).

Nello stesso modo che Gesù aveva raccolto i suoi in una sola famiglia ed aveva vissuto con loro nell’intimità e nell’amore (Giov. 13:1) così i discepoli raccolsero i primi fedeli nei vincoli di una comunione tutta calore e tutta affetto. In Palestina, come d’altronde in ogni nazione, il pasto in comune rappresenta uno degli atti più intimi ed affettuosi ed era logico quindi che i cristiani cercassero in esso quell’appagamento spirituale suggerito o ispirato dall’opera di Dio nella loro vita.

Dalla descrizione del libro degli Atti possiamo dedurre che i primi pasti di carità appartenevano all’iniziativa privata; erano tenuti cioè in conseguenza del fatto che alcuni fedeli invitavano altri fedeli nelle proprie case e attraverso un continuo scambio di visite finivano per stare assieme in tutte quelle ore che le famiglie si trovavano raccolte e perciò finivano per stare assieme anche quando si consumavano i pasti. In seguito però con lo sviluppo della chiesa e con l’organizzazione della vita e dell’attività comunitaria anche i “pasti di carità” passarono sotto il controllo e l’iniziativa della chiesa stessa. Sembra che i primi pasti di carità furono organizzati dalla chiesa e sovvenzionati dalla chiesa esclusivamente per assistere i poveri e le vedove (Atti 6).

Non possiamo escludere però che anche i fedeli di diversa condizione sociale, cioè i fedeli che non si trovavano in stato di povertà partecipassero a queste mense cristiane per godere comunione spirituale ed intimità fraterna. Comunque, negli anni seguenti, i “pasti di carità” entrano a far parte non soltanto della vita cristiana, ma anche del culto cristiano.

La chiesa organizza “pasti in comune” perché questi offrono la possibilità di stringere i credenti nei vincoli d’una familiarità autentica e perché attraverso questi il nome del Signore viene esaltato e glorificato. Anzi, ricordando che il Signor Gesù istituì la Santa Cena trovandosi con i suoi intorno ad una tavola, la chiesa pensa di inserire la celebrazione della Cena del Signore nell’esercizio dei pasti di carità e così, dopo un pasto in comune e alla fine di questo i credenti suggellavano la loro gioia e la loro comunione passando dall’uno all’altro il “calice del Signore” ed il “pane che rammemorava il sacrificio del Signore”.

Possiamo immaginare quale gloriosa benedizione e quale profonda esperienza spirituale scaturivano da una famiglia di credenti riuniti intorno ad una tavola nell’intimità di un pasto in comune, quando il loro scopo non era tanto quello di soddisfare i propri bisogni fisici, quanto quello di lodare Iddio e di prepararsi per partecipare alla Cena del Signore. Ebbene, la chiesa, consapevole di questa benedizione e di questa esperienza, dava a questa pratica cristiana la propria attenzione e la propria cura.

Il metodo usato dalla chiesa per organizzare questi pasti era il metodo della vera comunione fraterna. Veniva scelto un luogo adatto ad ospitare tutti i fedeli e questo luogo diventava in conseguenza della scelta “la casa del Signore”. Qui, ad un’ora precedentemente stabilita, si raccoglievano tutti i credenti per mangiare assieme; ogni fedele, (od ogni famiglia), portava il necessario per il pasto, e tutto veniva messo sulla tavola per uso comune.

Dopo la preghiera, con la quale si rendevano grazie e lodi a Dio per la Sua Provvidenza, s’iniziava il pasto che si effettuava con l’unione e la distribuzione delle vivande; i ricchi ed i poveri potevano godere in uguale misura della benedizione della mensa perché ormai non c’era più il cibo dell’uno o dell’altro, ma c’era il cibo di tutti.

Al termine del pasto e quando l’atmosfera era più calda per una comunione profondamente intima e, soprattutto, altamente spirituale, si concludeva la riunione con la celebrazione della Santa Cena. Quest’atto di culto sembrava ricordare in maniera solenne che Colui che ha salvato la chiesa vive con la chiesa e ritorna per la chiesa; per una chiesa però che è veramente chiesa e che perciò vive congiunta nell’amore e nella comunione.

Naturalmente anche nella pratica dei “pasti di carità” c’erano imperfezioni e infedeltà. La più grande forse era costituita dall’immancabile presenza di falsi cristiani che si univano alla chiesa al solo scopo di banchettare (Giuda 12; 2 Pietro 2:13) e di godere del loro inganno. Un altro frequente inconveniente era costituito dalla presenza di “veri cristiani” colpevoli però di colpe delle quali non si erano pentiti e che erano perciò, a causa della loro vita immorale, motivo di turbamento alla comunione fraterna (1 Cor. 5:11).

Ma il male che certamente contribuì di più a far scomparire questa meravigliosa pratica cristiana insegnata dal Maestro stesso col vivo esempio della sua vita, fu quello della profanazione. I pasti di carità in molte chiese si trasformarono da conviti spirituali in banchetti carnali. I credenti, persa di vista la finalità cristiana dei pasti in comune, incominciarono a vedere in essi soltanto una occasione di godimento terreno e di soddisfazione sociale.

Paolo nella sua prima epistola ai Corinti descrive questa tragica situazione e ci parla di questi cristiani superficiali che si recavano alla casa del Signore soltanto per mangiare e per inebriarsi. Essi mangiavano ancora uniti ad una medesima tavola, ma senza godere più comunione cristiana ed infatti coloro che giungevano primi iniziavano il pasto senza aspettare gli altri, ed i ricchi non dividevano più con i poveri; l’intimità e la familiarità erano soltanto apparenti ed il significato spirituale del pasto di carità era irrimediabilmente compromesso.

Probabilmente da questi inconvenienti incominciò a sorgere l’idea di sospendere i pasti di carità, come forse dai disordini esistenti nelle riunioni di culto, nell’amministrazione dei doni dello Spirito, incominciò a sorgere l’idea di reprimere le manifestazioni divine. E così una gloriosa pratica cristiana fu posta nell’ombra e nell’oblìo ed una benedizione celeste fu rubata alla chiesa.

Ma se è vero che il nostro vivo desiderio è quello di tornare alla verità, a tutta la verità, deve essere nostro proposito tornare anche a questa pratica spirituale che se è stata insegnata dal Signore ed è stata seguita dalla chiesa apostolica, deve essere accettata anche da noi perché possa tornare ad essere benedizione per noi.

Non è difficile servirsi delle scarne notizie della scrittura per ripristinare questa pratica spirituale: in ogni località è possibile disporre di un locale adatto per raccogliere i fedeli; in ogni località è possibile preparare nelle proprie case le vivande necessarie per concorrere alla mensa comune. Una volta al mese, o anche più frequentemente, la chiesa può indire, in un giorno festivo, un pasto in comune che abbia lo scopo preciso di stringere i fedeli nell’intimità di una comunione e di una familiarità che si può realizzare soltanto nelle circostanze offerte da un banchetto squisitamente spirituale.

Non è difficile mantenere l’incontro sopra un livello elevato e puro: è necessario soltanto che gli anziani della chiesa assumano il controllo della suggestiva riunione per guidarla in armonia alla volontà dello Spirito. Non devono mancare cantici, preghiere, conversazione cristiana, esortazioni, insegnamenti e tutto questo può anche concludersi con la celebrazione della Santa Cena presieduta e diretta dall’angelo della chiesa.

Trovarsi come figliuoli di Dio, fratelli nel Signore, uniti nella più simpatica delle intimità conduce immancabilmente alla realizzazione di quella comunione che è garanzia certa di benedizione celeste. Purtroppo, invece, non soltanto i pasti di carità sono stati dimenticati ed aboliti, ma la comunione e l’intimità dei cristiani tende, in questa generazione, ad affievolirsi sempre più accentuatamente e sembra quasi che la conclusione dei rapporti fraterni debba essere in un domani, non lontano, quello della più profonda apatia; estranei e sconosciuti l’uno all’altro potremo giungere ad una separazione egoistica che ucciderà definitivamente l’organicità e l’unità del popolo cristiano. 

Sarà salvata partorendo figliuoli1 Tim. 2:15

Questo è uno di quei tanti versi della scrittura che viene usato più per accendere discussioni che non per ricevere ammaestramento cristiano. Eppure Iddio non ci ha dato nessuna parte della sua parola per farne motivo di oziose discussioni perché “tutta la scrittura è utile  per insegnare e correggere…affinché l’uomo di Dio sia intero…” (2 Tim. 3:16-17).

In questo verso è contenuta una lezione cristiana che è necessario ricevere con umiltà e fede. Bisogna dire, naturalmente, che questa lezione non è per tutti e neanche per tutte, ma esclusivamente “per le donne coniugate”.

Ma procediamo per ordine e meditiamo attentamente questo verso tanto discusso.

Dobbiamo iniziare l’esame dal verso 12 che inizia con le parole: “Io non permetto alle donne d’insegnare, né di usare autorità sopra il marito…”.

Da queste parole l’apostolo inizia il suo ragionamento esortativo col quale ordina la sottomissione della moglie al marito ed il verso che noi esaminiamo rappresenta esattamente la conclusione del suo insegnamento e della sua esortazione.

Paolo quindi, come abbiamo già detto, non si rivolge a tutte le donne, ma scrive soltanto a quelle che hanno il ministero di moglie e di madre; la lezione che egli espone ha lo scopo altissimo di far conoscere i doveri cristiani della più intima vita coniugale.

Se l’esame accurato del passo nel quale si trova il verso ci fa chiaramente comprendere che l’apostolo vuol dare un insegnamento spirituale alla donna cristiana maritata, possiamo concludere che egli non vuole affatto affermare, come alcuni hanno pensato, che la salvezza della donna derivi dalla sua fecondità. Per Paolo la salvezza deriva esclusivamente dalla grazia di Dio e quindi le donne cristiane sono gradite al Signore indipendentemente dal loro stato civile; nubili o maritate, con figliuoli o senza figliuoli, tutte sono salvate per quella “grazia” che viene conservata dall’ubbidienza, dalla fede e dalla sottomissione.

Anzi, altrove l’apostolo giunge fino ad affermare che la posizione della donna nubile è una posizione privilegiata nella vita cristiana (1 Cor. 7:38).

Paolo, ripetiamo, non vuole parlare della superiorità delle donne che hanno figliuoli su quelle che non hanno figliuoli, ma vuole impartire una preziosa lezione cristiana. La donna deve imparare la lezione per compiere quello che il suo dovere di moglie e di madre cristiana le impone. Non soltanto, come dice Paolo, deve vestire onestamente con modestia e verecondia e non soltanto deve essere umile e soggetta al proprio marito, ma deve anche accettare con sottomissione e gioia il suo nobile e duro compito di madre.

Deve! E’ una cosa che appartiene a lei, una cosa nella quale non può mancare la “sua volontà”. E’ necessario insistere su questo concetto perché il verso di Paolo sia rettamente interpretato: non ci troviamo di fronte ad una circostanza che può verificarsi e può non verificarsi indipendentemente dalla volontà della donna, ma ci troviamo di fronte ad un’azione che può essere compiuta liberamente come atto di fedeltà cristiana.

Alcuni invece hanno pensato che l’apostolo abbia voluto affermare che i meriti di una donna possono essere misurati dal numero dei figliuoli e quindi quelle mogli alle quali la natura ha negato la gioia della maternità, non hanno meriti davanti a Dio.

Paolo non voleva dire questo e noi pensiamo infatti che un credente non ha mai meriti da presentare a Dio, ma se per meriti intendiamo ubbidienza e fedeltà, è chiaro che una donna feconda, non ha nulla di più, dal punto di vista cristiano, di una donna infeconda o di una donna nubile. Ripetiamo: questo verso di Paolo non vuole stabilire una differenza spirituale sulla base di una differenza fisica, ma vuole semplicemente porgere un insegnamento, che, al pari degli insegnamenti dati prima, fa appello alla volontà, alla sottomissione e all’ubbidienza della donna maritata.

Il primo punto di questa lezione riguarda l’accettazione della maternità; la donna deve essere pronta a divenire madre, deve essere pronta ad accettare questo dovere in sottomissione alla volontà di Dio. Con questa accettazione la donna maritata riconosce umilmente anche la volontà e la decisione del proprio marito che è stato costituito “capo della sua vita”.

Un autore cristiano scriveva recentemente che la prolificazione deve essere decisa dalla donna e che nessun marito ha il diritto di rendere madre una moglie che non desidera divenire madre. Noi non vogliamo affermare che il marito possa essere un violento ed un prepotente sopra la moglie e tanto meno vogliamo sostenere che la prolificazione debba essere il risultato incontrollato di una incontinenza maschile, ma non possiamo dar ragione alla tesi del citato scrittore cristiano perché ci sembra che il primo insegnamento che appare nelle parole del nostro versetto riguarda proprio la sottomissione della donna alla volontà e alla decisione dell’uomo.

Non è la moglie che deve stabilire quando il marito può diventare padre, ma è il marito che deve decidere quando la moglie deve diventare madre. E’ logico che nel Signore questo si realizza sempre nel pari consentimento perché un marito non abuserà mai della moglie ed una moglie sinceramente cristiana si sottometterà sempre al marito e non pretenderà che egli vada contro i dettami della sua coscienza.

Il medesimo autore, per sostenere la sua tesi, cita, nel suo libro, il caso di una donna spaventata dal pensiero della maternità, che riuscì ad ottenere dal futuro marito la promessa che non la avrebbe resa madre se non quando lei stessa lo avesse voluto; la donna fu invece delusa dall’agire del marito che non tenne in nessun conto la promessa e che perciò attirò sopra di sé lo sdegno e il risentimento della moglie. Naturalmente l’autore si scaglia violentemente contro il marito senza esitazione e senza riserve.

Noi non vogliamo dar ragione a quel marito perché non è giusto fare una promessa che non si ha intenzione di mantenere; però vogliamo aggiungere che una donna che pretenda dal futuro marito una promessa impegnativa a non renderla madre è una donna che non ha nessun diritto di contrarre matrimonio.

Sarà salvata divenendo madre! Il primo comandamento espresso da questo verso ci parla chiaramente della sottomissione della donna all’uomo per quanto riguarda la maternità. Tutta la Bibbia è concorde nel presentare l’uomo come il capo della donna in ogni cosa, ma particolarmente nella prolificazione. La moglie è “la collaboratrice” dolce, soave, eroica, ma sottomessa di colui che più direttamente deve rispondere a Dio della vita familiare.

In queste parole c’è anche un secondo punto della lezione: la sottomissione al grande piano di Dio. Iddio ha dato all’uomo la fatica e la lotta del lavoro e ha dato alla donna il dolore della maternità; l’uomo che fugge il lavoro fugge dal piano divino e la donna che rifiuta la sofferenza della maternità rifiuta l’eredità di Dio al genere umano. E’ una eredità ingrata, pesante, ma è una eredità che viene dal cielo, è l’eredità della gravidanza, del parto, dell’assistenza, dell’allattamento, quindi l’eredità del dolore, della rinuncia, del sacrificio.

La donna che accetta tutto questo con umiltà sincera e con dedizione assoluta, partecipa a quell’atto di espiazione universale che siamo chiamati a compiere cotidianamente, ma soprattutto compie un’offerta di deferenza e di sottomissione a Dio.

Iddio vuole essere onorato da un popolo che sappia, in ogni manifestazione di vita, essere diverso dagli altri popoli. Un popolo che anche di fronte ai compiti più ingrati e ai doveri più duri sappia operare “per il Signore” con umiltà gioiosa e con entusiasmo sincero. Quindi Iddio vuole essere onorato da quelle donne che anche quando tutte le altre cercano di fuggire il sacrificio, la sofferenza, la responsabilità, accettano il loro nobile ministero femminile nel dolore sublime della maternità generosa.

Ma oltre ai due punti illustrati la lezione contenuta nel verso di Paolo ha un terzo aspetto non meno importante dei precedenti. “Divenire madre” vuol dire divenire collaboratrice di Dio; collaboratrice di Dio nella nascita di anime preziose e collaboratrice di Dio nell’educazione e nella formazione di quei figliuoli che ogni madre deve “cercare di condurre” alla verità e alla salvezza.

La donna deve accettare il matrimonio non come appagamento dei piaceri più superficiali che il matrimonio può offrire, ma come accettazione di una missione sublime; deve altresì riconoscere che in questa missione la maternità si trova al centro. E’ stato detto da un uomo di Dio che dietro “ogni grande servitore dell’Eterno c’è o c’è stata una moglie santa o una madre santa”.

Quest’affermazione è profondamente vera perché è vero che una moglie ed una madre hanno un compito elevatissimo come collaboratrici ed educatrici.

Una madre fedele al ministero ricevuto si sentirà felice non soltanto di portare nel seno delle creature di Dio e non soltanto di dare dolorosamente alla luce dei figliuoli, ma anche ed anzi soprattutto di continuare la sua dolce fatica materiale e spirituale per inculcare fede, conoscenza, amore a tutti quei figliuoli che Iddio avrà posto fra le sue braccia.

Anna, madre di Samuele, Elisabetta, Maria, Loide, Ruth, Appia… e tanti altri nomi biblici ci spiegano il perchè lo Spirito Santo, per Paolo, ci ha detto: “sarà salvata partorendo figliuoli…”.

Crediamo di aver concluso, ma comunque ripetiamo: – Paolo non ci ha voluto dire che la salvezza della donna dipende dalla sua fecondità; non ci ha voluto dire che una donna che non abbia figliuoli non fa parte del popolo cristiano; ma ci ha voluto insegnare che l’approvazione divina deve essere cercata da ogni donna maritata, nella sottomissione completa al proprio marito, nell’assolvimento eroico del compito di madre, nell’accettazione dei dolori e dei sacrifici della maternità.

La donna deve accettare, nella sfera del cristianesimo, come un dovere sacro, i dolori della gravidanza e del parto, i sacrifici dell’assistenza l’impegno dell’educazione sociale, morale e spirituale della prole.

Questi sono i diversi compiti riservati alla donna e questi sono i compiti nei quali la donna può trovare i più profondi motivi di fedeltà a Dio.

  Culto Cristiano

  I culti cristiani devono essere la manifestazione chiara dello Spirito Santo. I credenti devono essere gli strumenti e lo Spirito deve essere il Maestro divino che muove, che usa, che suona.

I cantici devono essere ispirati e devono essere resi melodiosi dallo Spirito, le preghiere devono essere sospinte e guidate dallo Spirito, le prediche devono essere unte e rese potenti dallo Spirito e tutto, tutto quello che si compie durante la riunione di culto deve procedere direttamente dallo Spirito.

Lo Spirito è ordine, ma ordine divino e perciò i culti cristiani non possono essere disciplinati da un ordine umano, ma devono essere regolati dallo Spirito. Lo Spirito è ricchezza, ma ricchezza celeste e perciò i culti cristiani non possono essere resi perfetti dalle capacità umane, ma devono essere potenziati ed arricchiti dallo Spirito.

Consideriamo più attentamente queste affermazioni: – Lo Spirito è ordine!

Che vuol dire “lo Spirito è ordine”? Vuol dire forse che lo Spirito è sottoposto all’ordine che noi stabiliamo?

Certamente no! Lo “Spirito è ordine” vuol dire che tutto quello che lo Spirito fa rientra nel piano e nella volontà di Dio; tutto è armonia, perfezione, equilibrio.

Se lo Spirito in una riunione di culto guida la chiesa a trascorrere tutto il tempo della riunione stessa in preghiera, quello è ordine. Se lo Spirito un’altra volta ispira a trascorrere la maggior parte del tempo, a salmeggiare e cantare davanti a Dio, quello è ordine.

Lo Spirito Santo conosce quando dobbiamo compiere una cosa e quando ne dobbiamo compiere un’altra; conosce quando abbiamo bisogno di un alimento spirituale e quando abbiamo bisogno di un alimento spirituale diverso e perciò soltanto lo Spirito Santo può guidare tutte le cose con ordine perfetto.

Il nostro “ordine” invece, cioè l’ordine da noi stabilito con “saggezza umana” è un ordine meccanico formalista, che non può e non sa andare incontro ai bisogni del cuore, e non può e non sa glorificare il nome di Dio.

Noi pensiamo che un culto deve sempre iniziare con una formula liturgica, deve avere poi due o tre cantici e dopo i cantici deve avere la preghiera e quindi ancora un cantico; proseguendo deve avere le testimonianze, la predica e quindi terminare con un cantico, una preghiera ed una benedizione finale.

Quest’ordine è l’ordine stabilito da noi e se lo Spirito vuol cambiare questo programma noi ci rifiutiamo di ascoltare e di seguire lo Spirito. Forse la chiesa ha bisogno soltanto di preghiere, ma noi invece riserviamo soltanto alcune briciole del nostro tempo alla preghiera; forse molti credenti avrebbero bisogno di essere benedetti da un culto pieno di cantici di lode e di gloria, ma noi invece cantiamo quei cantici obbligati dalle diverse fasi della riunione; cantico di apertura, cantico di preghiera, cantico di testimonianza, cantico d’intercessione o di ringraziamento.

Nel nostro ordine umano c’è un disordine spirituale anzi addirittura una confusione, perché noi facciamo quello che ci siamo proposti di fare senza attendere che lo Spirito ci guidi in ogni riunione secondo il piano e la volontà di Dio.

Ma lo Spirito non è soltanto ordine, è anche potenza e ricchezza. Questo vuol dire che quando lo Spirito guida completamente le riunioni di culto i credenti vengono arricchiti dalle benedizioni della potenza divina, ma quando invece i culti si svolgono sul piano delle capacità e dei programmi umani, i credenti non ricevono nulla che possa realmente incoraggiarli e fortificarli.

Oggi ci sono, come sempre ci sono stati, cristiani che hanno una franchezza naturale ed una parola facile; questi cristiani, soltanto perché hanno il coraggio e la capacità di parlare, più o meno bene, in pubblico, si sentono nel diritto di far udire continuamente la loro voce: pregano, testimoniano, esortano, ammaestrano… senza essere mai guidati dallo Spirito e senza riuscire quindi di benedizione alla chiesa.

Frequentemente, purtroppo, udiamo preghiere o testimonianze che ripetono e ripetono le medesime parole che abbiamo udite decine di volte e quello che udiamo è freddo, vuoto, meccanico e non suscita nessun sentimento positivo nel nostro cuore; forse qualche volta suscita un sentimento di ribellione contro queste abitudini e queste forme che non tramontano mai e che mettono in evidenza soltanto l’orgoglio, la presunzione e l’insensibilità dell’uomo carnale.

Quello che viene dallo Spirito invece è vita e comunica la vita a tutti coloro che ascoltano; forse sono soltanto poche parole di lode a Dio o forse è soltanto una breve esortazione, ma nella lode c’è la vita e nell’esortazione c’è la vita. Quando colui che prega è guidato dallo Spirito, tutti sono trasportati in alto, verso le sfere celesti dalla potenza divina, e quando colui che ammaestra agisce sotto l’unzione dello Spirito, tutti sono raggiunti profondamente dall’efficacia della parola predicata da parte di Dio.

Lo Spirito può anche usare la franchezza e la facilità di parola del credente, ma può anche far parlare con potenza e con sapienza infinita coloro che non hanno franchezza ed eloquenza, quindi lo Spirito può usare tutti, può sospingere tutti, può far parlare tutti.

La chiesa cristiana dunque deve raccogliersi soltanto per ricevere lo Spirito e per far muovere liberamente lo Spirito in ogni riunione di culto. Deve saper chiedere ed aspettare affinché in ogni riunione lo Spirito possa largire i doni come Egli vuole, e a chi Egli vuole.

I doni dello Spirito sono chiaramente elencati nella Parola di Dio; essi sono quei medesimi doni che erano visibilmente manifestati nella chiesa apostolica e che rappresentavano il programma delle riunioni di culto fra i cristiani di quell’epoca. Anche oggi, come diciannove secoli fa, nelle riunioni di culto, si devono manifestare doni di lingua e doni d’interpretazione; doni di profezia e doni di discernimento; doni di sapienza e doni di scienza; doni di fede e doni di potenza e di guarigioni. Queste manifestazioni non devono apparire soltanto “qualche volta” o in qualche rara occasione, ma devono apparire sempre e devono riempire il culto cristiano perché il culto cristiano deve essere traboccante di potenza soprannaturale, e perciò deve essere controllato, ispirato e guidato dallo Spirito Santo.

Esiste forse un passo della Bibbia ove troviamo scritto che in ogni culto ci devono essere le “testimonianze”? In quale passo della Bibbia troviamo scritto che nelle riunioni di culto tutto deve essere compiuto seguendo una regola meccanica? Soprattutto in quale passo della Bibbia troviamo scritto che possono esserci riunioni di culto senza la manifestazione della profezia, della fede, della sapienza o degli altri doni dello Spirito?

Il culto cristiano controllato, ispirato e guidato totalmente dallo Spirito è scomparso o sta per scomparire perché questa particolare verità biblica non viene più tenuta in onore nel seno delle chiese. Sembra quasi che i cristiani abbiano più fiducia nell’organizzazione liturgica che non nella guida divina e sembra anche che abbiano più fiducia nella cultura teologica e nella preparazione umana e intellettuale che non nell’ispirazione celeste.

E’ meglio avere un programma unico per tutte le chiese, è meglio avere un programma studiato in tutti i particolari; è meglio che parlino soltanto quelli che parlano sempre e quindi che son capaci nel parlare, cioè che son capaci a testimoniare, pregare, esortare…questo è quello che oggi si pensa nelle chiese e che si dice nelle chiese. Infatti le chiese procedono esattamente secondo queste regole di prudenza e saggezza umana.

Purtroppo però quello che “è meglio” secondo l’uomo, non “è meglio” secondo lo Spirito e perciò noi oggi godiamo “il meglio” della carne, ma perdiamo ciò che “è il meglio” dello Spirito. I nostri culti sono ordinati, organizzati e forse diventano anche sempre più perfetti nei cantici, nelle testimonianze, nelle prediche, ma diventano sempre più aridi e sempre più poveri spiritualmente; c’è molta preparazione umana, molta saggezza umana, ma c’è poca presenza dello Spirito e poca guida dello Spirito.

La verità che dobbiamo tornare a proclamare è semplice: Le riunioni di culto devono essere restituite all’autorità dello Spirito Santo e alla guida dello Spirito. Non dobbiamo mai sapere anticipatamente quello che faremo in una riunione di culto, non dobbiamo sentirci legati e paralizzati da un qualsiasi programma.

Devono parlare tutti coloro che lo Spirito “vuole” che parlino ed altresì tutti coloro che non sono sospinti dallo Spirito devono tacere.

Quelli che “si sentono” di parlare, non si devono sentire da loro stessi, ma si devono “sentire” comandati, anzi forzati dallo Spirito. Se si sentono soltanto perché “sentono di farsi udire” o perché “si sentono capaci di parlare” o perché “nessun altro testimonia o nessun altro prega”; se si sentono per questi motivi banali ed umani è meglio che chiudano strettamente le loro labbra per non cedere alla tentazione di muovere di proprio senno la loro lingua e dire bugiardamente: “Il Signore ha detto…”.

Nelle riunioni di culto non devono mancare i doni dello Spirito, non devono mancare mai; devono esser presenti sempre e in abbondanza perché altrimenti la riunione non è una riunione spirituale, una riunione ed un culto cristiano.

Tutti devono vedere e riconoscere chiaramente che Iddio è presente nella riunione; che Iddio guida la riunione; che Iddio parla nella riunione; le preghiere devono salire come sospiri ineffabili suscitati dallo Spirito, i cantici si devono elevare come una melodia celeste, le profezie devono giungere piene di potenza come espressioni della volontà di Dio e poi non devono mancare i messaggi in lingua, le interpretazioni, le potenti operazioni.

In conclusione il culto cristiano deve essere un esercizio spirituale realmente soprannaturale; un esercizio nel quale tutto sia sorpresa meravigliosa e tutto sia manifestazione della presenza e della guida dello Spirito Santo.

Verità dimenticata, pratica trascurata o piuttosto benedizione negletta, e fino a tanto che le chiese cristiane continueranno ad essere soddisfatte di quelle riunioni di culto ove tutto è preparato, tutto è previsto e dove la “libertà dello Spirito” è soltanto una formula per consentire ai presuntuosi o agli insensibili di esternare i propri sentimenti, la gloria del ministero dello Spirito non sarà più visibile nel seno del popolo del Signore.

E’ necessario umiliarsi sinceramente nella presenza di Dio, come è necessario cominciare ad esercitare arditamente la fede; è necessario chiedere una pienezza di Spirito, come è necessario dar vita agli impulsi dello Spirito. Dobbiamo cioè nascondere noi stessi in Dio perché soltanto Dio sia esaltato e glorificato nella nostra vita; dobbiamo compiere quei passi che lo Spirito ci spinge a compiere anche quando ci sembra di non saperli compiere; dobbiamo chiedere inistancabilmente piogge di Spirito Santo sulla nostra anima ed infine dobbiamo realizzare che Iddio ci ha unti di Spirito per darci la potenza, la gioia, l’assistenza. la guida ed i doni dello Spirito.

Quando ci metteremo su questo piano di vita cristiana potremo ritornare ai culti apostolici che erano i veri culti cristiani e che erano ben differenti dalle riunioni di culto che noi teniamo. Allora non vedremo e non sentiremo più credenti lanciati in una corsa per aprire disordinatamente le labbra alla preghiera o all’esortazione; non vedremo e non udremo più credenti che con la loro testimonianza inopportuna o la loro orazione fuori tempo e fuori della guida di Dio, spezzeranno e turberanno la comunione della chiesa con Dio; non vedremo e non sentiremo più sempre gli stessi fratelli e le stesse parole, ma nell’esercizio del culto, vedremo e sentiremo soltanto la presenza benedetta dello Spirito che guiderà ogni cosa nella volontà di Dio concedendo alla chiesa benedizione ed edificazione nell’esercizio del vero ministero cristiano e nella manifestazione di tutti i doni dello Spirito.

Sarà, in altre parole, la vittoria dello spirituale sul carnale, la vittoria del soprannaturale sul naturale, la vittoria dell’armonia sul caos, la vittoria del prezioso sul vile.

Nessuno si turbi per queste affermazioni, ma in realtà oggi esistono troppe manifestazioni di carnalità, di capacità naturali, di disordine spirituale, di superficialità ministeriale. Parlare, far da maestri, guidare in preghiera quando manca la guida divina significa manifestare tutte queste realtà negative in una volta sola.

Ricordiamoci che Iddio ha scelto i poveri del mondo e i pazzi del mondo e li ha chiamati a vivere nella libertà dello Spirito; questo piano di Dio è glorioso, ma è anche…pericoloso. Se i poveri ed i pazzi agiscono nella potenza di Dio diventano potenti e savi, ma se agiscono sul piano naturale sono e rimangono soltanto poveri e pazzi; e se questo popolo si muove realmente nella libertà dello Spirito, mostra e dimostra l’armonia di un ordine divino, ma se usa la “libertà” per una occasione della carne, mostra soltanto la confusione derivante dall’incapacità.

Dobbiamo essere grati a Dio quando usa gli incolti per amministrare i suoi doni spirituali, ma non possiamo essere grati agli incolti quando, muovendosi o parlando da loro stessi danno soltanto spettacolo della loro ignoranza. Dobbiamo essere grati a Dio per la meravigliosa libertà che ci ha concessa per muoverci nelle sfere spirituali, ma non possiamo essere grati a tutti quei credenti che si credono liberi fino al punto di affliggere e turbare la chiesa esercitando doni e ministeri che sono il frutto della loro immaginazione esaltata dalla presunzione.

Culto cristiano: spettacolo di armonia celeste, fonte di potenza divina; manifestazione sublime di quel ministero che Iddio ha dato alla chiesa; di quel ministero che nella chiesa e attraverso la chiesa deve far risplendere la gloria di Dio (2 Cor. 3:18).

Torniamo, sì torniamo a questo culto spirituale, frantumando inesorabilmente le forme delle nostre povere riunioni ove troppo spesso l’ignoranza umana e l’insensibilità spirituale prevalgono per deprimere gli animi e per esaltare l’orgoglio umano; torniamo alla potenza dello Spirito, alla guida dello Spirito, al ministero dello Spirito, ai doni dello Spirito affinché realmente lo Spirito ci possa nutrire, elevare e condurre nel piano meraviglioso della volontà di Dio.

  La moglie di Caino   Genesi 5:17

  Questo argomento, come tanti altri, presentati dalla Bibbia, può essere considerato fra quelli che debbono essere lasciati “nelle mani di Dio” perché non riguardano direttamente la dottrina cristiana e non portano nessuna luce sull’opera della salvezza compiuta da Cristo.

Iddio ci ha chiaramente detto nella Bibbia che “quel che è rivelato è per noi… e quel che è occulto è per il Signore”. Noi non possiamo comprendere tutto e perciò Iddio non ci dice tutto, ma vuole che noi lo seguiamo fiduciosamente fino al giorno che “Lo vedremo come Egli è” e che “conosceremo appieno”.

Nel cielo avremo la spiegazione delle cose più misteriose e dei fatti più straordinari e riceveremo luce sui misteri più profondi e sulle verità più oscure.

Oggi dobbiamo seguire Iddio nella certezza che “Egli può fare tutto” e che tutto quello che è scritto nella Sua parola è verità. Gli uomini possono combattere la parola di Dio e possono anche cercare di farla apparire assurda e ridicola; ma noi dobbiamo rimanere saldi nella convinzione che tutto quello che è contenuto nella Bibbia è verità.

Noi non pretendiamo e non vogliamo, perciò, chiarire “in maniera sicura e definitiva” il problema della moglie di Caino, ma vogliamo soltanto dimostrare che non è affatto vero che su questo problema la Bibbia asserisce delle cose assurde, ridicole od immorali.

In questo episodio biblico non c’è nulla di assurdo e coloro che affermano che Caino “non poteva trovare moglie” perché non c’erano altre creature sulla terra, dimostrano di non leggere attentamente la Bibbia. Noi, ripetiamo, non vogliamo spiegare una cosa che ci sarà spiegata un giorno chiaramente da Dio, ma vogliamo però sottolineare alcune dichiarazioni della Bibbia che ci dimostrano che questo fatto non è incredibile e non è ridicolo.

Il capitolo IV della Genesi ci parla della nascita di Caino, di Abele e di Set; Adamo ed Eva sono stati espulsi dal giardino di Dio ed hanno iniziata la loro vita coniugale in mezzo alle nuove circostanze: nascono i primi due figliuoli. A questo punto, per chiarire il problema, dobbiamo porci delle domande: Quanti anni aveva Adamo alla nascita di Caino? Quanti anni passano fra la nascita di Caino e quella di Set? Set è il terzo figlio di Adamo oppure è semplicemente un figlio concesso da Dio per sostituire l’amato Abele?

Sono tutte domande che dimostrano da quanti punti di vista può essere considerato il problema.

Adamo aveva 130 anni quando nacque Set, ma quanti anni aveva quando nacque Caino?

Noi non sappiamo neanche se Iddio incomincia a contare gli anni di Adamo dal giorno che fu creato o piuttosto dal giorno che fu espulso dal giardino di Eden e che quindi fu sottoposto al valore degli anni e del tempo. Anche questo punto ha il suo valore perché se gli anni di Adamo incominciano, nel pensiero di Dio, da quando esce da Eden, Caino può essere nato quando suo padre aveva soltanto uno o due anni, cioè quando suo padre aveva vissuto soltanto uno o due anni fuori del giardino; se invece i 130 anni che Adamo aveva alla nascita di Set erano tanti dal giorno che fu creato, Caino può aver visto la luce quando suo padre aveva forse 65 anni.

Parliamo di 65 anni perché altri patriarchi antidiluviani hanno avuto il loro primo figliolo a quell’età. Comunque, dalla nascita di Caino alla nascita di Set può essere trascorso un lungo o lunghissimo periodo di tempo e in questo lunghissimo periodo di tempo Adamo può avere avuto figliuoli e figliuole in numero notevole.

Alcuni critici affermano che tutti i figliuoli di Adamo sono nati “dopo” Set e perciò non esistevano quando Caino fuggì lontano dai suoi genitori per cercare moglie.

Questo non è chiaramente detto dalla Bibbia perché se essa ci parla di quello che avvenne dopo Set, non ci parla di quello che avvenne dopo Caino. Infatti così leggiamo nella Genesi: “Adamo dopo aver vissuto centotrent’anni generò un figliuolo alla sua somiglianza, secondo la sua immagine e gli pose nome Set… il tempo che visse Adamo dopo ch’ebbe generato Set, fu ottocento anni e generò figliuoli e figliuole”.

Nulla ci autorizza a pensare che dopo Caino ed Abele, Adamo non generò figliuoli e figliuole. Anzi entro il lungo spazio di tempo che poteva esserci e che certamente ci fu fra la nascita di Caino e quella di Set potevano nascere forse due o tre generazioni.

Il fatto che Set venga presentato come la “sostituzione” di Abele ed il fatto che egli venga incluso nella genealogia come il “primogenito” non dicono affatto che egli sia stato il terzo figlio di Adamo.

Consideriamo infatti la cosa alla luce della Scrittura: Caino era il primogenito, ma Abele era l’amato da Dio; Caino, roso dall’invidia e vinto dal peccato, uccide Abele cioè uccide colui sul quale Iddio aveva posato il Suo occhio. Abele non è più il pellegrino del cielo, come lo chiamerà più tardi un grande cristiano, è scomparso dal mondo e Iddio vuol suscitare uno che prenda il suo posto e fa nascere Set colui dal quale viene Enos capostipite di un “popolo del Signore” (Genesi 4:26).

Questo non ci dice affatto che Set è il vero “primogenito” e che è nato subito dopo Caino ed Abele anzi sembra dirci esattamente il contrario. Adamo poteva avere figliuoli, figliuole e nipoti quando Iddio gli fece nascere “un uomo secondo il piano divino” che doveva essere considerato il vero capostipite, il vero primogenito di un popolo di Dio.

Non avvenne così anche nella storia di Giacobbe? Ruben il “primogenito” fu riprovato per il peccato commesso contro Dio e contro il padre, ed un altro figliuolo prese il posto di primogenito e questo figliuolo fu Giuseppe undicesimo figliuolo maschio di Giacobbe.

La Scrittura molte volte ci mostra che i “primogeniti” di Dio non sono sempre quelli che lo sono per nascita, ma sono quelli che lo sono per elevazione e le storie di Davide, di Efraim, di Salomone, di Giacobbe, dei leviti ci illustrano chiaramente questa verità. Sono storie che ci mostrano che l’elezione di Dio non è legata all’età: i primogeniti vengono ignorati o posti da una parte e altri, nati dopo, prendono il loro posto nel piano e nella benedizione di Dio.

Quindi alla fuga di Caino potevano esserci sparsi, nei dintorni del paese, numerosi discendenti di Adamo raggruppati in colonie o famiglie ed infatti alla nascita di Enos, avvenuta 105 anni dopo quella di Set, suo padre, gli uomini già numerosi nel mondo, si separarono in due distinti popoli: uno profano ed uno religioso; uno di Dio ed uno estraneo a Dio.

Ci sembra quindi che non esistano elementi validi per dichiarare che la storia di Caino è assurda e storicamente imprecisa; ma esaminiamo ora se può essere considerata immorale. Infatti, i critici, irriducibili ed ostinati, affermano che se Caino ha potuto trovare una moglie, l’ha potuta trovare soltanto nel numero delle sue sorelle e quindi ha compiuto un atto incestuoso condannato e condannabile.

Prima di ogni cosa vogliamo far notare che si potrebbe allora spostare il problema anche più avanti e portarlo addirittura ad Adamo perché anche Adamo ha avuto una moglie che non veniva da altro popolo o da altra famiglia, ma dalla sua stessa carne; una moglie cioè che era più che sorella o parente.

Se Adamo poteva avere una moglie della sua stessa carne vuol dire che Iddio riteneva sana e morale questa relazione matrimoniale.

Che cos’è infatti la morale? La morale è semplicemente una legge della società umana o per la società umana. E’ cioè una legge formulata dagli uomini per la società o una legge formulata da Dio per gli uomini. L’immoralità si verifica soltanto quando c’è la trasgressione della legge perché il “peccato è la trasgressione della legge”. Se non c’è legge non ci può essere trasgressione della legge.

Ebbene che cosa c’insegna la Bibbia a questo riguardo? C’insegna chiaramente che Iddio ha dato la sua legge o ha rivelato la sua volontà in ragione delle condizioni degli uomini. Non quello che è proibito oggi è stato sempre proibito e non quello che gli uomini devono fare oggi dovevano fare ieri. Basta ricordare le parole di Gesù: “Fu detto dagli antichi: Non commettere adulterio… ma io vi dico che chi solo riguarda una donna…”. Sono parole che ci parlano di una legge che si sviluppa, che si perfeziona; Iddio chiede di più perché sa di poter chiedere di più. Egli ha tollerato, ha permesso, ha considerato le circostanze e le condizioni di ieri, ma col mutamento delle cose compie anche il mutamento della legge.

Tutti ricordiamo la disputa sostenuta da Gesù, intorno al divorzio. Gli oppositori del Maestro si facevano forti di una legge data da un legislatore inviato da Dio: “Perché Mosè permise il divorzio”? “Per la durezza dei vostri cuori…” rispose Gesù e con questa risposta fece chiaramente comprendere che la legge data da Mosè “rendeva morale” un atto del quale gli israeliti, in quell’epoca, non erano capaci di fare a meno.

Possiamo forse concludere che questo metodo di Dio rappresenta un compromesso della verità e che Iddio stesso muta e si cambia secondo le esigenze degli uomini? No, possiamo soltanto dire che Colui che è il Legislatore perfetto e la Giustizia assoluta chiede agli individui ed ai popoli soltanto quello che essi possono dare e fare. Ogni individuo ed ogni popolo ha una responsabilità propria che è in relazione alla luce, alla legge e alla forza che possiede davanti a Dio.

Noi non siamo esaminati da Dio sul metro della legge degli antichi e gli antichi non sono esaminati in base alla legge che possediamo noi; ognuno deve rispondere personalmente a Dio.

Quindi, Abramo, che sposa Sara, figliuola di suo padre (Gen. 20:12); o Nahor che prese in moglie Milca, figliuola di suo fratello (Gen. 11:29), possono essere considerati uguali a Caino che forse prese in moglie una sua nipote od una sua sorella. I matrimoni fra consanguinei condannati oggi dalla legge morale, erano resi necessari, all’epoca primitiva, dalla particolare condizione della nascente umanità che faceva capo ad una sola coppia di coniugi e quindi voler fare appunti di puritanesimo sembra almeno puerile perché anche in opposizione con ogni conclusione logica e storica.

Caino poteva facilmente trovare moglie perché la Bibbia non esclude affatto l’esistenza di una figliolanza di Adamo, successiva a Caino stesso e precedente a Set e Caino poteva anche contrarre un matrimonio con donna consanguinea perché a quell’epoca non esisteva rivelazione o legge che rendesse quell’atto (necessario allo sviluppo della specie umana), riprovevole od immorale.

  Onora tuo padre e tua madre   Efesi 6:2

  Il comandamento espresso in questo verso della Bibbia rappresenta anche un principio di ordine sociale. Non soltanto nella chiesa cristiana, ma anche nella società umana si ripete continuamente: “onora tuo padre e tua madre”. Tutti conoscono questo dovere e tutti riconoscono che deve essere considerato fra i primi e più sacri doveri dell’uomo, ma purtroppo pochi, forse pochissimi, si ricordano di adempierlo, quindi deve essere incluso nel numero delle “verità dimenticate”.

L’apostolo Paolo, nel descrivere “i segni” degli ultimi tempi a Timoteo, suo figliuolo nel Signore, dice: “… gli uomini saranno amatori di loro stessi, avari, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti a padri e madri…” (2 Timoteo 3:2).

Oggi vediamo molti di questi segni non soltanto nel mondo, ma anche nella chiesa cristiana ed uno dei segni che incontriamo più frequentemente è costituito, purtroppo, dalla disubbidienza e dall’irriverenza verso i genitori. Sono sempre più numerosi i cristiani, ragazzi, giovani o maturi, che si uniformano allo spirito del mondo per assumere, verso i propri genitori, un contegno di insubordinazione, d’indipendenza e, spesso, di disinteresse ed indolenza.

Le più malefiche tendenze carnali prevalgono per produrre ingratitudine ed incoscienza; soltanto da questi sentimenti peccaminosi l’individuo può trarre consiglio per non adempiere il proprio dovere verso i genitori. Infatti una considerazione serena e sincera della personalità dei genitori obbliga ogni figliuolo a coltivare il più profondo sentimento di amore riconoscente.

Consideriamo brevemente chi sono, che cosa hanno fatto, che cosa fanno e quale ministero hanno ricevuto i genitori. A questo scopo desideriamo semplicemente ripetere una pagina dedicata ai ragazzi alcuni anni fa:

Sapete voi chi, dopo Dio, vi vuole maggiormente bene?

I vostri genitori; cioè le vostre mamme ed i vostri papà.

Essi vi amano con tutto il cuore e perché vi amano compiono sacrifici eroici per voi.

Vi ricordate quando eravate piccini, piccini? No, non potete ricordare quando eravate ancora in fasce, ma i vostri genitori si ricordano di quel tempo e si ricordano di tutti i dolori e di tutte le pene affrontate per voi.

Hanno dovuto perdere il sonno per vegliare la vostra insonnia; hanno dovuto privarsi del riposo per prendere cura delle vostre necessità; hanno dovuto trepidare e lacrimare per sollevarvi dalle vostre malattie. Voi, allora, avevate bisogno di tutto ed essi vi hanno dato tutto, dandovi il loro amore.

Se oggi siete giovanetti, sani, forti, istruiti è soltanto perché i vostri genitori vi hanno dato tutto e si sono, sovente, privati di tutto.

Essi hanno lavorato per voi, hanno sofferto per voi, hanno sperato per voi.

I genitori rappresentano un meraviglioso dono di Dio. Che cosa potrebbe fare un fanciullo senza i genitori? Che cosa sarebbe avvenuto di voi se fin dai primi giorni della vostra vita aveste perduto l’amore e l’assistenza dei vostri papà e delle vostre mamme?

Il cibo che vi ristora e vi nutrisce; gli abiti che vi coprono e vi rendono eleganti; le case che vi accolgono e vi riparano, i libri che vi istruiscono e vi aprono un avvenire non sono tutti frutti dell’amore dei vostri genitori?

Chi è che vi conforta, che vi aiuta, che vi protegge? Chi è che vi comprende e vi accoglie per consolarvi?

Non sono sempre i vostri genitori?

La mamma non è per voi un angelo amoroso che veglia sopra la vostra vita? Ella è pronta a fare qualunque cosa per voi ed è pronta a rinunciare a qualsiasi cosa per amore vostro. Vi ama; vi ama ardentemente e darebbe volentieri cento volte la sua vita ed il suo sangue per il vostro bene.

Il papà non è la vostra guida e la vostra protezione? Non è forse vero che egli si consuma in un lavoro qualche volta umiliante, sempre faticoso, soprattutto per voi? Egli pensa a voi, al vostro mantenimento, ai vostri vestiti, ai vostri studi e lavora, lavora, lavora. Quante volte si vorrebbe riposare, vorrebbe lasciare per un poco di tempo il suo faticoso lavoro, ma poi ripensa a voi e continua nella sua fatica, nel suo lavoro.

Ebbene questi genitori che dànno tutto per i loro figli, non chiedono nulla in cambio…”.

Crediamo di non aver esagerato nel tracciare le caratteristiche dei genitori; essi sono dal punto di vista umano l’espressione più genuina dell’amore e del sacrificio e rappresentano perciò una delle più sublimi realtà della vita.

I genitori hanno ricevuto un ministero da Dio e questo ministero si compie attraverso la dedizione e la rinuncia, ma essi lo assolvono serenamente e, spesso, gioiosamente. E’ un ministero di assistenza, di educazione, di guida; essi sono stati costituiti protettori dei figliuoli, educatori dei figliuoli, guida morale, spirituale e sociale dei figliuoli.

Quindi il comandamento divino “onora tuo padre e tua madre” esprime un ordine che vuole il riconoscimento e il rispetto di un altissimo e meraviglioso ministero e non può essere interpretato soltanto come un obbligo alla sottomissione forzata e momentanea. La sottomissione, nei primi anni della vita, che deriva più da debolezza fisica che non da sensibilità morale, non è l’adempimento totale e perfetto del grande e glorioso comandamento che giace troppo spesso fra le verità dimenticate.

Vediamo adunque come deve essere interpretato ed attuato l’ordine di Dio.

Onorare vuol dire “riconoscere ciò che è dovuto a persona degna e renderglielo in pensieri e in affetti, in parole e in fatti, con sentimento di rispetto, riverenza…”. Questa definizione è copiata da un comune vocabolario e ci chiarisce in maniera esatta quello che i figliuoli devono rendere ai propri genitori.

Rispetto e stima, ecco i primi sentimenti che si devono avere verso i genitori; essi sono meritevoli di rispetto per l’opera d’amore che hanno compiuto a favore dei figliuoli, sono meritevoli di rispetto per i sacrifici affrontati e per il lavoro compiuto, sono meritevoli di rispetto per l’età che hanno, ma soprattutto sono meritevoli di rispetto perché hanno ricevuto un ministero da Dio. I figliuoli devono vedere nei propri genitori coloro che sono stati costituiti da Dio conduttori della loro vita e attraverso i genitori devono rispettare Iddio stesso che li ha chiamati ad assolvere il sublime compito di padre e madre.

Rispetto e stima devono andare uniti ed anche se, purtroppo, non mancano genitori che tradiscono la propria missione, rispetto e stima non devono venire meno nell’animo dei figliuoli. I genitori non devono essere giudicati dai figliuoli; i giudici non mancheranno, ma i figliuoli dovranno sempre rifiutarsi di entrare a far parte di questi.

Gli errori di un genitore, a meno che lui stesso non distrugga i rapporti di sangue con i propri figliuoli, non potranno mai annullare quello che egli ha fatto, quello che egli ha dato, quello che egli sente quale genitore e perciò gli errori di un genitore non devono mai, assolutamente mai, soffocare i sentimenti di rispetto e di stima nel cuore dei figliuoli.

I genitori sono stati i collaboratori di Dio per darci vita; sono stati gli strumenti di Dio per darci assistenza; sono stati i ministri di Dio per darci educazione… tutto questo è sufficiente a farli rimanere sempre al sommo del nostro rispetto e della nostra stima.

Parole irriverenti, linguaggio arrogante, apprezzamenti sprezzanti, insubordinazioni insolenti sono macchie che contaminano il cuore di ogni figliuolo che esercita queste cose verso i genitori. L’età non conta e non conta il sesso, la cultura e la posizione sociale; ogni figliuolo, ragazzo o giovane, maschio o femmina, istruito o incolto, dipentente o indipendente dai genitori deve a questi un rispetto pieno di riverenza ed una stima ricca di affetto.

La stima ed il rispetto assumono una forma pratica nell’ubbidienza; i figliuoli devono sempre ubbidire ai propri genitori. Ma anche l’ubbidienza è soltanto una parte dell’onore che i figliuoli devono ai genitori perché con questa, assieme a questa o dopo questa ci deve essere l’assistenza affettuosa e reale.

Desideriamo riportarci ancora una volta all’articolo scritto alcuni anni addietro e del quale abbiamo già citato una parte, per illustrare in maniera elementare queste affermazioni. Così scrivevamo: “…I figliuoli devono avere sempre riverenza e riconoscenza per i genitori e devono quindi essere sempre pronti ad ubbidire senza discutere e senza indugiare.

Devono essere pronti ad ubbidire quando sono molto piccoli, non soltanto perché i genitori sono degni di essere ubbiditi, ma anche perché, soltanto un padre o soltanto una madre conoscono le cose che sono buone per i propri figliuoli; essi quindi devono seguire con sottomissione il consiglio dei genitori nella continua ubbidienza.

Devono ubbidire quando divengono giovanetti, perché coll’aumentare della ragione, aumenta anche il dovere di gratitudine e di amore verso coloro che si sacrificano per il loro bene.

Devono ubbidire quando divengono adulti ed indipendenti e non soltanto per un rispetto all’età e all’esperienza, ma per una completa sottomissione alla legge dell’amore.

Sì i figliuoli devono sempre ubbidire ai propri genitori con prontezza e con rispetto perché così comanda Iddio e perché così insegna la legge della riconoscenza.

L’ubbidienza qualche volta è sacrificio, ma ricordatevi che se i genitori v’impongono alcuni sacrifici, lo fanno unicamente per il vostro bene. Essi vi vogliono esercitare alle dure battaglie della vita ove tutto è sacrificio.

Che avverrebbe se la passera, per risparmiare un sacrificio ai piccoli passerottini, rinunciasse ad insegnar loro i primi elementi di volo?

Essi non saprebbero e non potrebbero mai volare; sarebbero perciò condannati a vivere la più infelice vita che potrebbe essere riservata ad un uccellino. Per evitare questo la mamma spinge i suoi piccoli al sacrificio, all’ubbidienza…

L’aquila, dicono i naturalisti, si trova di fronte a dei piccoli alquanto ribelli. Gli aquilotti non sono disposti a lasciare il nido per cimentarsi nei primi voli. Sapete cosa fa mamma aquila? Sconvolge il nido! Toglie da esso tutte le parti comode e morbide e lo riduce un incomodo groviglio di punte e sterpi per obbligare i suoi piccoli ad uscirne fuori e, quando essi escono, li lancia nel vuoto per far aprire loro le alucce ancora incerte… ma non li lascia e non appena vede che essi precipitano sconfitti, con un volo rapido si porta sotto a loro e li raccoglie.

Come vedete è soltanto l’ubbidienza nel sacrificio, o spontanea o forzata, che irrobustisce e prepara i piccoli per la vita indipendente di domani.

La vostra mamma o il vostro papà non vi possono sempre lasciare nel comodo nido della vostra pigrizia o dei vostri giuochi o delle vostre piccole idee perché se lo facessero vi renderebbero infelici per tutta la vita. Essi vi devono chiamare ai vostri doveri familiari, ai vostri doveri scolastici, ai vostri doveri sociali.

Soltanto i vostri genitori possono conoscere chiaramente la misura di questi doveri e quindi voi dovete compierli nell’ubbidienza senza discutere e senza lamentarvi.

Forse voi siete chiamati a compiere tanti piccoli servizi che i vostri compagni non devono mai compiere; forse voi dovete studiare più a lungo dei vostri piccoli amici; forse siete sottoposti ad un numero maggiore di regole e di limitazioni di quelle che hanno altri ragazzi, ma non vi lamentate, non discutete perché i vostri saggi genitori sanno bene il perché di questi doveri ed essi non ve l’impongono per farvi soffrire, ma soltanto perché sono indotti a ciò da pressanti necessità della vita.

Al disopra di ogni altro pensiero mantenete sempre quello principale e ripetete con convinzione a voi stessi: “I nostri genitori ci amano e tutto quello che fanno per noi lo fanno per il nostro bene”.

Questo pensiero vi aiuterà sempre a sopportare con dolcezza ogni sacrificio e, di conseguenza, a compiere con serenità il vostro atto di ubbidienza.

L’ubbidienza, oltre al sacrificio, impone la fiducia. Il bambino ragiona con la sua piccola mente; il genitore invece ragiona con la sua mente adulta. I loro ragionamenti non vanno sempre d’accordo perché il figlio esamina la cosa dal “suo punto di vista” mentre il genitore la decide dal suo punto di vista.

La regola però c’insegna che il punto di vista esatto non è quello del figlio ma quello del genitore e quindi l’ubbidienza si deve compiere nella fiducia. Il ragazzo deve ragionare pressappoco così:

“A me sembra che in questa circostanza sarebbe meglio fare in un modo diverso da come comanda il mio genitore, ma poiché egli è più saggio di me è necessario che io ubbidisca perché certamente egli sa quello che vuole e conosce i risultati di quello che chiede”.

Molti ragazzi oggi vorrebbero invece prima discutere e poi ubbidire, cioè vorrebbero ubbidire soltanto dopo aver capito bene od essersi convinti completamente. Questo è mancanza di fiducia verso i genitori ed oltre a ciò è anche motivo di molteplici disubbidienze. Infatti non sempre il ragazzo “può capire” o non sempre sa o vuole convincersi, e, se è deciso ad ubbidire unicamente dopo aver capito, finirà, in questi casi, col disubbidire.

I genitori hanno sempre molti anni più dei figli; sono stati figli prima di loro ed inoltre hanno conosciute le battaglie della vita e quindi sanno bene quello che comandono e conoscono lo scopo di ogni ordine. I figli, invece, non hanno esperienza e non posseggono una mente sufficientemente sviluppata per comprendere ogni cosa e perciò devono affidarsi fiduciosamente alla guida e alla volontà di coloro che sono stati dati da Dio per guida e per protezione.

L’ubbidienza, naturalmente, non è tutto quello che un figlio può dare ai suoi genitori ma è una fra le cose più difficili a darsi. Con l’ubbidienza bisogna porgere l’affetto, la riverenza, l’assistenza; queste cose rappresentano un contraccambio inadeguato all’opera che i genitori compiono a favore dei propri figliuoli, ma nella legge dell’amore non esistono, non possono esistere, proporzioni. L’amore non è un commercio ove si dà tanto per ricevere altrettanto o, possibilmente, di più; non è un calcolo matematico, non è un problema geometrico. No, l’amore è l’amore; esso dà, dà e dà sempre senza chiedere nulla, ma gioisce e si rallegra quando riceve e non calcola se quel che riceve è di più o di meno di quel che ha dato.

Quindi i genitori pur ricevendo sempre meno di quel che hanno dato e che continuano a dare fino alla morte, si rallegrano e gioiscono quando i propri figliuoli rendono loro assistenza che è amore in azione; rispetto che è amore in subordinazione.

Molti giovani credono di avere vari diritti e credono altresì di non avere nessun dovere nei loro rapporti con i genitori, quindi pretendono aiuto, assistenza, conforto… e quando poi non hanno più bisogno di queste cose voltano le spalle e prendono la loro strada.

I genitori, raggiunti dalla vecchiaia e dalla debolezza, cominciano ad aver bisogno di ogni cosa, ma i figli non se ne preoccupano e li lasciano in abbandono quando invece potrebbero facilmente porgere conforto ed assistenza.

Un giovane, prima di lavorare per formarsi una famiglia, dovrebbe lavorare per assistere ed aiutare i propri genitori ed anche quando avrà una famiglia propria, una moglie, dei figliuoli, non dovrà dimenticare coloro che hanno dato tutto per lui. Quando il cuore è ispirato e riscaldato dall’amore ogni opera può essere compiuta.

La scrittura c’insegna che i cristiani “devono rendere il contraccambio ai loro antenati” perché se alcuno non provvede ai suoi, ha rinnegata la fede ed è peggiore di un infedele. Ma non basta provvedere, bisogna provvedere con affetto. I genitori non devono essere umiliati da un’elemosina ma devono essere confortati da un’assistenza affettuosa, spontanea, riverente.

Gli aiuti devono essere resi graditi anche attraverso la forma con la quale vengono largiti ed i genitori devono poter vedere nelle opere dei figliuoli il frutto meraviglioso dell’amore”.

Quanti cristiani ed in quale misura rispettano oggi l’ordine di Dio? In alcuni paesi le relazioni familiari sono state turbate al punto che i figliuoli, sin dalla fanciullezza, assumono una posizione di indipendenza che li conduce all’insolenza, alla disubbidienza e all’indifferenza nei confronti dei propri genitori.

Le relazioni affettive si dissolvono e gli obblighi sociali si dileguano e invece moltiplicano in misura sempre più impressionante i sintomi di quel disordine morale che crea giovani ribelli e depravati e produce rovine familiari. I genitori dopo aver cercato di dar tutto cadono nello sconforto e terminano la loro vita dimenticati e trascurati, i figli dopo aver preso soltanto il bene materiale dei genitori, si rivoltano contro questi e nel miglior dei casi li abbandonano e li dimenticano.

Questo avviene fuori e dentro l’ambiente  cristiano ed è per questo che affermiamo che anche il comandamento “onora tuo padre e tua madre” rappresenta una verità dimenticata.

Noi che desideriamo un risveglio spirituale dobbiamo soprattutto desiderare che questo risveglio si manifesti in maniera da riportare in luce e quindi in attuazione queste sane norme di vita cristiana.

 

In man di Satana 1 Cor. 5:5

  Questo verso dell’epistola di Paolo ai Corinti parla chiaramente dell’autorità e della potenza che si manifestavano nella chiesa cristiana nell’epoca apostolica.

Anche allora c’erano peccati e ribellioni perché anche allora la chiesa era soggetta alle terribili tentazioni che si presentano sul sentiero dei santi, ma la potenza dei servitori di Dio si opponeva energicamente all’invadenza del male.

In Corinto c’era un terribile peccato: “un uomo si teneva la moglie di suo padre”. E’ necessario precisare che questo non vuol dire che “si teneva la propria madre” ma che conviveva probabilmente con la propria “matrigna”. Non sappiamo se il padre di questo credente era ancora vivo o se era già morto, ma in ambedue i casi vivere coniugalmente con la moglie del padre era una cosa orribilmente ripugnante (Lev. 18:8).

Questo scandalo rappresentava una macchia alla testimonianza cristiana della chiesa ed era una malattia mortale nell’anima del peccatore di Corinto e perciò Paolo agisce immediatamente con l’autorità “ricevuta dal Signor Gesù”. Egli comanda che l’impuro fornicatore sia dato in man di Satana “alla perdizione della carne” affinché “lo spirito sia salvo nel giorno del Signor Gesù”.

L’Apostolo conosceva bene la personalità e la posizione di Satana. Satana era, ed è, l’autore del male; da lui vengono lagrime, dolori, peccati, malattie. Quando Satana “può avere” un uomo nelle mani è capace di ridurlo nella miseria più profonda, nella malattia più terribile e nello sconforto più grande (Giobbe 3:1-4).

Satana agisce sempre per rovinare e per distruggere, ma non sa che Iddio frequentemente si serve della sua potenza malefica per adempiere i suoi piani meravigliosi. Iddio agisce come quei grandi generali che qualche volta permettono al nemico di avanzare e lasciano credere che si stanno ritirando sconfitti, mentre invece stanno soltanto seguendo una manovra abilissima per ottenere una strepitosa vittoria.

Paolo sapeva bene questo perché lui stesso era stato costretto da Dio a bere la medicina amara di Satana quando, colpito dall’infermità, aveva dovuto accettare la compagnia di un angelo infernale, che si tratteneva al suo fianco per schiaffeggiarlo continuamente. Satana pensava di avvilire Paolo, forse di distruggere Paolo, ma Iddio sapeva invece che quell’azione dolorosa era necessaria per mantenere il suo grande servitore in una posizione di umiltà. E non era soltanto Iddio a sapere questo, ma lo stesso Paolo era a conoscenza che quell’opera dell’inferno era stata permessa dal cielo per la salute della sua anima che altrimenti sarebbe potuta cadere nell’orgoglio spirituale a causa di tutte le meravigliose grazie e rivelazioni ricevute da Dio (2 Cor. 12:7).

Quindi non è Satana che “corregge” o che “salva”, ma è Iddio che usa anche le medicine amare ed i veleni pericolosi per dare la salute ai suoi figliuoli. Nel caso del peccatore di Corinto, Satana doveva ricevere il permesso di colpire “la sua carne”, cioè di farlo cadere in una terribile malattia affinché, rovinato nel corpo, non avesse avuto più possibilità e forza di peccare, ma avesse avuto anzi occasione di umiliazione e ravvedimento.

In questo caso anche se la malattia fosse arrivata fino alla morte, Satana non avrebbe avuto la vittoria perché in realtà egli avrebbe potuto distruggere soltanto la carne, mentre Iddio attraverso la mortificazione della carne avrebbe potuto suscitare il ravvedimento e compiere la purificazione dell’anima prima che il peccatore scendesse nel sepolcro.

Quella che appare meravigliosa, nel verso di Paolo ai Corinti, è l’autorità della chiesa. Non soltanto Iddio può scacciare Satana e può concedere permessi a Satana; non soltanto Iddio, cioè, può fermare l’avversario o può far muovere ed agire l’avversario, ma anche il popolo di Dio ha ricevuto questo potere e questa autorità ed anche i servitori di Dio possono respingere ed avvilire Satana o possono usare Satana come verga dolorosa e come medicina amara.

Naturalmente Satana non sa che viene usato per il bene perché egli agisce soltanto per distruggere e quando colpisce un individuo ha un solo desiderio, quello di farlo soffrire e quello di perderlo per l’eternità. Satana non sa, ma Iddio sa, ed anche i servitori di Dio sanno, perché per lo Spirito Santo hanno ricevuto parte della sapienza di Dio, dell’onniscenza di Dio e dell’autorità di Dio.

Quindi, come Iddio può usare qualsiasi potenza e qualsiasi energia dell’universo per compiere i suoi piani e può usare al momento opportuno anche Satana quasi fosse un bastone per correggere, anche i servitori di Dio possono comandare e muovere tutte le potenze e Satana stesso affinché la chiesa sia edificata e benedetta. La chiesa, ricordiamoci quindi, non è dominata da Satana, ma domina Satana; l’avversario non può muoversi dove vuole e quando vuole, ma può muoversi soltanto sotto l’autorità dei servi di Dio che lo tengono legato con le catene della potenza divina.

Pietro può dire allo zoppo: “Lèvati e cammina” (Atti 3:6) e può dire a Saffira: “I piedi di coloro che hanno seppellito tuo marito sono all’uscio, ed essi ti porteranno via”. (Atti 5:9).

Può dire: “Tabita lèvati…” (Atti 9:40) e può anche dire: “Io ti vedo essere in legami d’iniquità” (Atti 8:23).

Paolo può dire: “…sarai cieco senza vedere il sole…” (Atti 13:11); può consegnare Imeneo ed Alessandro in mano di Satana (1 Tim. 1:20) e può anche esclamare: “rizzati in piedi…” (Atti 14:10) o “imporre le mani e guarire gli infermi” (Fatti 28:8).

Nel ministero della chiesa c’è autorità per liberare dalla potenza malefica di Satana e c’è autorità per legare alla potenza di Satana quando questa potenza può procurare un dolore ed una sofferenza che possono riuscire salutari per la chiesa ed utili per i piani di Dio.

Questo passo della scrittura riesce incomprensibile e risulta discusso in maniera animata perché la chiesa cristiana di oggi ha perduto la potenza di ieri. L’autorità dei servitori di Dio è diminuita tanto, che essi frequentemente non dominano Satana, ma sono dominati da lui e quando non sono dominati direttamente da Satana sono dominati dalle circostanze provocate da Satana. Oggi non s’incontrano più molto spesso uomini capaci di sgridare e vincere la malattia o addirittura capaci di spezzare le catene della morte; quindi è logico che non s’incontrano più neanche uomini di Dio capaci di leggere nei cuori e, soprattutto, capaci di far piombare la malattia, la sofferenza, la cecità sopra coloro che potrebbero essere guariti soltanto da queste amare medicine.

Le medicine che la chiesa usa in questi giorni sono medicine umane che producono scarso effetto quando non ne producono affatto o quando non producono danno. Per queste ragioni molti peccati segreti continuano a turbare, con la loro presenza, la vita della chiesa ed anche molti peccati palesi continuano a crescere e a crescere oscurando la testimonianza cristiana e ostacolando la presenza di Dio.

Se un autentico risveglio di Spirito restituisse alla chiesa l’autorità di ieri, noi torneremmo a vedere i ministri cristiani con la potenza divina nelle mani ed essi combatterebbero il male della chiesa, non con la forza della disciplina di un’organizzazione, ma con la forza dello Spirito Santo che è autorità sopra ogni forza e quindi anche sulla forza del diavolo.

Comunque, per concludere il presente capitolo possiamo ripetere: Il versetto di Paolo ai Corinti ci dice chiaramente che l’Apostolo ordina alla chiesa che il peccatore sia abbandonato a Satana perché quest’avversario crudele lo colpisca con la malattia. La mortificazione del corpo deve servire per togliere l’occasione del peccato e per produrre il ravvedimento necessario onde portare di nuovo quest’uomo a Dio. Rovinato nel corpo, salvato nello spirito; questo è l’obbiettivo dell’apostolo a beneficio di un credente sviato dalla verità che può essere guarito dall’azione velenosa dell’inferno soltanto a mezzo di un controveleno formato “allo stesso veleno che ha prodotto l’infezione”.