di Charles Greeneway – Ricordo nel 1945, quando giacevo in una capanna di fango in Africa. Avevo la febbre nera, ed era un tempo in cui si poteva morire di quella malattia. Ho contato 124 tombe di missionari che non avevano raggiunto i quarant’anni. Ho seppellito i miei amici, ho dovuto imbracciare un fucile per poter difendere il loro corpo esanime dagli animali feroci perché al mattino potessimo svolgere il funerale. Ho pianto, ho gridato, posso indicarvi delle tombe di missionari che sono stati sepolti dopo una vita intera dedicata al Signore e senza vedere neanche un frutto del loro lavoro, ma un giorno lo vedranno perché hanno provveduto ad arare fedelmente il loro campo. Non esiste raccolta se qualcuno prima non ara il terreno! Continuiamo ad arare, seminiamo e lasciamo i risultati nelle mani di Dio. Il Signore ci dia degli uomini “apostolici”, con una potenza “apostolica”, con un messaggio “apostolico” e allora saranno come un aratro. Il premio è lo stesso sia per l’aratore che per il mietitore. Spesso, però, vogliamo soltanto raccogliere, ma qualcuno deve arare. Se si guarda al lavoro compiuto e si vede poi un’altra generazione che raccoglie, ci si chiede: “Perché non ho potuto raccogliere invece di arare?” Qualcuno, però, deve arare; i nostri padri hanno arato, sono stati odiati, le loro case bruciate e le loro riunioni interrotte, ma hanno continuato ad arare!
Mi trovavo lì, su quel lettuccio, sapevo che dovevo morire, e perciò chiamai mia moglie. Aveva il nostro bambino fra le braccia, non possedevamo nulla, né automobile, né frigorifero. Sapevamo di missionari che stavano a giornate di cammino lontano da noi, non c’erano dottori e neanche medicine. Quindi dissi a mia moglie: “Sto per morire”, forse avevo ancora soltanto quattro ore di vita. Ne avevo visto morire tanti con questa febbre. Mia moglie sedette sul letto e mi disse: “Charles, abbiamo gettato il pane sulle acque, abbiamo fatto tutto quello che Dio ci ha comandato, aspettiamo che il pane torni”.
Subito dopo quelle parole sentii delle persone che cantavano: “C’è potenza, c’è potenza miracolosa nel sangue prezioso di Gesù!”. In quel momento pensai che erano gli angeli, quando invece mi resi conto che gli angeli non possono cantare quell’inno perché non sono redenti, ma io sono redento, questo è il mio cantico, è la mia redenzione! Guardai attraverso un foro praticato nella parete della capanna e vidi circa quattrocento africani che camminavano su quel piccolo viottolo, accanto alla casa e con i loro tam-tam suonavano e cantavano quel cantico meraviglioso! Chi erano? Era il pane che avevamo gettato sulle acque, erano coloro verso i quali il Signore ci aveva guidato per aiutarli. Parlavamo la loro lingua, mangiavamo quello che loro mangiavano, li abbiamo visti venire alla croce. Oggi, in quel luogo ci sono duecentomila cristiani pentecostali. Vennero e circondarono quella piccola capanna, cominciarono a pregare, una quindicina di loro entrarono si radunarono intorno al mio letto, si chinarono con la faccia fino a terra e cominciarono a pregare. Ora erano loro che rispondevano al mio bisogno!
Pregarono e Dio ascoltò le loro preghiere, le pecore che avevamo mandato fuori ora tornavano indietro e il Signore mi guardò, vide il mio bisogno, stese la Sua mano e versò il suo balsamo su me! Se sei un uomo scelto da Dio l’inferno deve arretrare; Dio verrà ed opererà. Io fui guarito, mi alzai dal letto, uscii fuori e quando mi videro tutti cominciarono a lodare Iddio, a cantare, fecero tanto rumore che richiamarono l’attenzione dei villaggi vicini e per tre giorni interi fu una festa senza interruzioni e la gente fu salvata, guarita e ripiena di Spirito Santo.
Tutto questo perché in un posto sperduto, Dio ci aveva aiutato a rispondere al bisogno di un uomo che non conoscevamo!