di Roberto Bracco – E udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono». (Apocalisse 14: 13)
Questa parola ci vieta di “essere contristati” come coloro che vivono senza una speranza nel cuore. La tradizione umana e la liturgia ecclesiastica hanno dedicato il mese di novembre alla memoria o al culto dei morti.
Non sappiamo se la scelta è stata ispirata dal fatto che il mese di novembre sembra essere il più triste fra i mesi dell’anno, ma sappiamo comunque, che l’ unione dell’elemento naturale a quello liturgico genera un sentimento di mestizia che pervade l’intera società umana.
Noi non ci uniamo alla commemorazione dei defunti oltre che per un atto di protesta verso una liturgia che non possiamo approvare né per le sue manifestazioni esteriori, né per il suo contenuto interiore, anche per liberarci da quel gioco di opprimente e desolante tristezza che è associato al culto dei morti o alla “commemorazione dei morti” inteso come atto di pietà religiosa.
Non desideriamo fare ostentazione di una virilità che potrebbe essere definita insensibilità, ma vogliamo semplicemente insistere sulla necessità di esaltare, nella nostra vita, quella speranza gioiosa che ci è venuta da Cristo.
“Beati i morti…”. Non dobbiamo, non possiamo versare lagrime di disperato sconforto sopra la bara o sopra la tomba di coloro che ci hanno preceduti perché questa sarebbe l’espressione di un sentimento che supera il semplice e inevitabile dolore causato dalla momentanea separazione. Se noi ci turbiamo fino alla disperazione per un corpo che non si muove più o per una bara che scende nella terra, dimostriamo di non credere all’affermazione della scrittura che ci parla della conclusione gloriosa e vittoriosa di una vita fedele.
Possiamo forse compiangere brevemente la “nostra” perdita; possiamo versare qualche mesta lagrima per la privazione da “noi” subita, ma non dobbiamo, non possiamo dichiarare meritevole del nostro compianto un individuo che Iddio dichiara solennemente beato. In altre parole: possiamo addolorarci per noi viventi che siamo rimasti nel combattimento o nel pellegrinaggio, privi della compagnia dei nostri cari defunti, ma non possiamo addolorarci per la loro sorte, che non dobbiamo mai individuare nel buio di una bara o nel fondo di una fossa, ma nel “riposo dell’Eterno”.
Riposo vuol dire tranquillità, serenità, benessere. Nel riposo è assente il lavoro o il combattimento e dal riposo è allontanata la preoccupazione, E’ dolce riposare durante le tappe del pellegrinaggio che si compie in questo deserto, ma è infinitamente più dolce riposare fuori da questo deserto.
Un’oasi può dare l’ombra dei suoi palmizi o l’acqua della sua sorgente, ma non può liberare dalla visione di un mare di sabbia infuocata e, sopratutto, non può evitare la strada infida e faticosa che deve essere ancora percorsa. Il riposo nel Signore, invece, è la fine del viaggio, il raggiungimento, dopo la fatica, della casa desiderata.
Paolo, prossimo alla meta bramata durante tutta la sua vita esclamava: “Il Signore mi raccoglierà nel Suo Regno celeste…” (2° Timoteo 4.18).